206 quando Sua Santità avesse animo d’investire Alessandro dei Medici di quello Stato, i principi d’Italia non se ne contenterebbero, e massime i Veneziani; ancorché vi fosse qualche speranza di consentimento, se loro si lasciasse Ravenna e Cervia; ma che in fatto questo non era buon principio alla pace, dovendosi cominciar dalla guerra per cacciare il duca Francesco dalla parte dello Stato che possedeva. Le quali parole fu giudicato da molti avere il pontefice messo in campo per porgerci partito di Ravenna e di Cervia, e attaccar pratica dello Stato di Milano per suo nipote. Appresso scrive l’oratore, che era stato un’ altra volta in ragionamento coi cesarei, i quali facevano grandi istanze sopra le fortezze di Milano e sopra l’interesse sofferto dall’imperatore nella presente guerra; ed egli aveva allegato all’incontro le ragioni della Signoria nostra e del duca di Milano, dicendo: « Io credeva che ormai aveste messo da canto queste due differenze, e nondimeno sento che perseverate; io voglio di nuovo parlarne con Sua Maestà; e perciò passate agli altri capi della pace. » Quelli adunque vennero ai cinquemila ducati dei fuorusciti, ai quali pareva loro che si dovesse sborsare la somma degli anni passati. Disse messer Gasparo: « La Illustrissima Signoria non è tenuta a questo, per un capitolo trattato nel mille cinquecento ventitré; dove è dichiarato, che non sia astretta a pagare ai fuorusciti cosa alcuna, se prima non se le restituiscano i luoghi ritenuti nella patria del Friuli. » A questa risposta, sebbene gli fosse fatta replica, pure non fu fatta maggiore istanza. Si venne poi a ragionare dì certe altre differenze, alle quali era speranza di assettamento. Finito questo, nel giorno seguente messer Gasparo si trasferì al palazzo di Cesare, e negoziando seco, gli disse: « Sire, se voglio parlare con Vostra Maestà, non come oratore veneziano, ma come suo servitore, lei e quelli che la consigliano di tener le fortezze di Milano per assicurarsi della promessa del duca Francesco, non intendono