199 vere nè per 1' onesto la Signoria non era tenuta di dargli cosa alcuna per questo conto; anzi, che Sua Maestà, con tale dimanda, si mostrava non essere così inclinata alla pace come si aveva predicato, essendo questo un cattivo principio di farla. Disse l’imperatore: «Io manderò in scrittura al pontefice la mia intenzione e volontà, così delle cose spettanti all’interesse comune, come del restante dei capi della pace che si dee fare ». Per le ultime lettere scrive I’ oratore, che si era abboccato col pontefice, dal quale aveva inteso che 1’ ambasciatore francese, per nome del re, porgeva partiti grandi all’ imperatore, per avere lo stato di Milano; e tra gli altri, un millione d’oro da far guerra contro i Veneziani, e prometteva, avendo vittoria, di partire tra loro due lo stato di essi. Per la qual cosa Sua Santità lo consigliava a persuadere la Signoria alla lega, acciocché non gliene avvenisse danno e pericolo. Nel quale proposito, l’imperatore, il giorno inanzi gli aveva detto: « Se io non fossi cristiano e non amassi l’anima mia, farei delle cose che non piacerebbero alla Signoria di Venezia ». Ed in fine il pontefice gli dette la scrittura della intenzione e volontà di Cesare, secondo che questi gli aveva detto di voler fare. Lette queste lettere, sopraggiunsero quelle dei ventisette da Bologna degli oratori messer Gabriele Veniero e messer Gasparo Coniarmi. Avvisavano di essere stati a visitazione del duca di Milano, il quale aveva detto: che il suo agente era stato coi deputati cesarei al maneggio della pace, cioè col Gran Cancelliere, con monsignor di Prato e monsignor di Granvelle; li quali lo provocarono a proferire a Cesare quanto voleva dargli. Onde gli aveva offerto scudi cinque-centomila in termine di anni dieci, a scudi cinquantamila all’ anno, per la investitura delio stato di Milano, secondo che il duca altre volte aveva promesso; soggiungendo, che il duca suo signore era povero, e che non sapeva e non