Africa, Mandati, Gibuti: jamais, jamais, jamais ci si credeva o si fingeva di crederci. Sono venuti in questa sala, i nostri, per documentare che an-ch’essi hanno tentato. Tittoni manda avanti Theodoli, che rappresenta il Ministero delle Colonie. Egli riassume da lontano i lunghi precedenti, espone in ordine le prime richieste dell’Italia, fondate sui noti diritti diplomatici, le cataloga e le mette da parte secondo la cronologia in cui furono accantonate od eliminate dagli <( Alleati ». L’esposizione non dev’essere stata nè remissiva nè breve, perchè Clemenceau s’è appoggiato con i gomiti al tavolo, ha curvato la schiena rotonda, ha abbassato la testa, come chi ascolta per dovere, ma molto, molto malvolentieri, e anzi non ha forse neppure ascoltato. Pichón a poco a poco ha piegato la testa da un lato, su una spalla, s’è assopito: forse non dorme completamente, ma la bocca gli s’è fatta floscia e tutto il profilo discende come a chi dorme in piedi: gli occhiali minacciano di cadérgli dal naso. Clemenceau se n’è accorto e lo guarda di sottecchi, come aspettando il momento propizio per svegliarlo. Un grande caldo, con tante portiere e tappeti. Theodoli riassume, dimostra i nostri diritti, finalmente conclude: arriva alle richieste, le enumera. Con voce fatta più indicativa e quasi riassumendo tutto il discorso, ad un certo punto pronunzia il nome fatale, la parola ina-scoltabile da orecchie francesi: Gibuti! Clemenceau solleva d’un colpo la testa, fissa gli occhi malvagi in quelli di Tittoni, si scosta con tutto il corpo dal 147