FORTUNOSO SALVATAGGIO DELL'lNDIPENDENZA ALBANESE primo incontro — come con certe donne, dirò, spregiudicate. (Naturalmente, guai a chi le vuol redimere.) In questo dormiveglia ch’è quasi dormire, ho avvertito un lieve colpo al braccio, e mi sono scosso. Qualcuno è già seduto quasi di fronte a me, sdraiato in una bassa poltrona, e mi tocca con la punta di un bastone di ebano dal pomo d’argento. Sorpreso e un po’ preoccupato, guardo il mio vicino. È un uomo più sui sessanta che sui cinquanta, pallido e quasi esangue, i tratti fini e cadenti, lo sguardo di una tristezza profonda e di un’acutezza sicura, i movimenti delle braccia lenti penosi e come arrugginiti, le gambe avvolte in un grosso scialle scozzese a quadroni scuri, il cappello duro un po’ calato sugli occhi, la barbetta grigia a punta, di antico re siculo: un complesso umano e aristocratico, deluso e scettico ma ardente. Dopo pochi istanti lo riconosco, sebbene non lo veda da oltre diciotto anni: da quando, dopo le guerre balcaniche e prima del conflitto mondiale, lo incontravo qualche volta nei corridoi della Consulta. Poi ricordo di averlo visto morto, su un lettino banale, in un enorme stanzone di un illustre palazzo romano, nel 1914, e intorno alla cara e squallida salma, percossi dal dolore, tanti diplomatici italiani. Sopra un tavolino vedo, come allora, le Lettere sull’Albania, che la mano di un amico vi aveva deposte. Era lui Antonino di San Giuliano. Il Marchese! Riconosco l’accento siciliano cadenzato e la sua vo-