LA FIERA DELLE ILLUSIONI chiede cortesemente se vogliamo avere la bontà di lasciare piena libertà ad un visitatore straniero che egli deve accompagnare per « dovere del suo uffi-ciò». Guardo il mio interlocutore: è un apprezza-bile rejeton dell’aristocrazia, il suo nome me lo conferma. Bene, piacere. Però, noi non vogliamo andarcene. Dico sottovoce al capitano chi è il personaggio che accompagno io e mi riesce facile ottenere che la domanda di sgomberare venga ritirata con deferenza. Siamo intesi: noi giriamo le sale per conto nostro, lui col suo personaggio per conto loro, ma non ci parleremo. Accetto: ma perchè non dovremo parlarci? Il mio Amico ed io lasciamo la biblioteca dell’Im-peratore e ci avviamo al gabinetto di lettura di Giuseppina. È grande, di dimensioni rettangolari, quasi severo ma ospitale. Bei mobili, belle sedie comode, tavolini minuscoli per libri e ouvrages. Dalla porta di fronte, entra il capitano, un po’ infastidito e impacciato col suo ospite. Questo gentiluomo inaccostabile è vestito di scuro, con evidente cura e dignitosa preoccupazione di non apparire frivolo; è alto e magro quanto occorre e basta per « fare razza », non di più nè di meno, equilibrato ed elastico, pallido il viso tagliente, allungata e ossuta la fronte virile, magnifiche le mani principesche, duro amaro angoscioso lo sguardo di quegli occhi scuri, che lampeggiano sofferenza e collera, violenza e contenutezza, rivolta e disciplina. Fa al mio Amico un inchino esente da ogni ombra di servilismo, saluto da lontano: siamo come commossi — non sappiamo 29