527 del proprio onore e dovere, amarono meglio di rinunziare le cariche loro, di quello che prestar di nessuna guisa l’opera a spogliare del legittimo suo civil principato il loro principe e padre amorevolissimo. Ma quel Consiglio fu radunato, ed un romano avvocato, fin dal primo suo esordire all’adunanza, mostrò chiaro ed aperto ciò che esso e tutti gli altri suoi compagni^ autori dell’orribile agitazione, volessero, quali fossero i loro sentimenti e a qual fine intendessero. La legge, ei diceva, del morale progresso è imperiosa e inesorabile, e aggiungeva che, tanto egli che gli altri, da gran tempo avevano fermo in mente di rovesciare del tutto il dominio e governo temporale dell’apostolica sede, avvegnaché noi non avessimo in qualunque maniera assecondati i loro desiderii. La quale dichiarazione noi abbiamo voluto rammemorare in questo vostro consesso, affinchè tutti conoscano che tale prava volontà, non per qualche congettura o sospetto da noi si attribuiva agli autori delle turbolenze, ma perchè manifestata palesemente e pubblicamente al mondo intero da quei medesimi, cui lo stesso pudore avrebbe dovuto trattenere dal pronunziarla. Non eran dunque le istituzioni più libere, non il desiderio di migliorare la pubblica amministrazione, non le provvide ordinazioni di qualsiasi genere, che essi volevano; ma era loro unico pensiero di abbattere, togliere, distruggere il civil principato dell’apostolica sede. E, per quanto fu in loro, condussero ad efTetto tale divisamento col decreto della così detta da loro Costituente romana, fatto nel giorno 9 febbraio di quest’anno, col quale, non sappiamo se con maggior ingiustizia contro i diritti della romana Chiesa e Fannessavi libertà di esercitar l’apostolico ministero, o con maggior danno e calamità dei sudditi ponlifìcii, dichiararono decaduti di fatto e di diritto dal temporale governo i romani Pontefici. E certamente, o V. F., non fummo afflitti da leggiera tristezza per fatti sì iniqui, e ci dogliamo sovra tutto che la città di Roma, centro della cattolica verità ed unità, maestra di virtù e santità, per opera di uomini empi, che tutto giorno colà si portano, apparisca a tutte le genti e nazioni autrice di mali sì grandi. Se non che in tanto dolore dell’animo nostro ci è cosa carissima l’affermare che la più parte del popolo del pontificio nostro stato, a noi e all’apostolica sede costantemente affezionata, abbonì sempre mai da quelle nefande macchinazioni, quantunque fosse spettatrice di così tristi avvenimenti. Ci fu pure di grande conforto la premura dei vescovi e del clero del pontificio nostro stato, che, in mezzo a pericoli e a difficoltà di ogni genere, non lasciarono di eseguire le parti del loro ministero ed ufficio, per allontanare i popoli stessi, colla voce e coll’esempio, da quei tumulti e dai nefandi raggiri della fazione. Noi veramente, in tanta contrarietà e pericolo di cose, nulla lasciammo d’intentato per provvedere all’ordine pubblico, ed alla pubblica tranquillità. Imperocché, molto tempo prima che quei tristissimi fatti di novembre accadessero, procurammo con tutta diUgenza che le truppe svizzere, addette al servizio dell’apostolica sede e dimoranti nelle nostre provincie, fossero tradotte in Roma; la qual cosa però, contro l’espressa nostra volontà, non fu posta ad effetto per opera di quelli, che nel mese di moggio erano al ministero. Nè ciò solamente, ma eziandio prima di