220 le piazze, i caffè, i teatri ; anzi, chi osasse farsi vedere a un teatro, essere latto seguo di scherno e censura, come uno spensierato che pensi a’ solazzi in un tempo di calamità e di sventure. Cosa notevole è a dirsi, che l'ultimo dì del carnovale, in nessun’ora nè del giorno nè della notte, apparisse neppur uno del volgo a far segno di tripudio e di festa, quando era usato costume averne un frastuono con sembiante più presto di baccanale che di allegria. Che ecclissameuto era cotesto? Che signilicanza portava? Certo di malaugurio^ più che non portino le comete e gli astri oscurati, onde impaurivano tanto i re e i capitani dei tempi addietro. Voi, Ferdinando, che a questi ecclissamenti non impauriste, vi mostraste da saggio uscito di quegli errori che discon\errebbono al nostro secolo, ma vi dichiaraste pur anche infelice politico se gli eeclissi degli animi confondeste con quelli della luna e del sole. Erano segni evidenti che, o voi accorrevate a porre un pronto, salutare riparo, o scoppiava un incendio da non potersi antivedere lino a qual termine estendesse le sue rovine, e se, non ostante i cannoni e la forza, invalidi a spegnerlo, non recasse in cenere eziandio la regale porpora e il trono. Provereste forse a scolparvi, col dire clte tutto questo oscuramento ignoravate non essendo testimonio a tai minaccevoli indizii? No, la scusa non tiene. Quel vigile Occhio che spiava ogni nostra mossa, e sempre inclinato a veder ìnon-gibelli in una lucciola che muovesse di notte; onde parecchi s’imprigionavano senzachè quinci il tribunale trovasse materia onde procedere; quell’ Occhio, oltreché veggente, articolante parola, vi teneva esattamente informalo non solo di quanto accadeva nell’aperta luce del dì, ma ne’bui nascondigli della notte, e fin anche ne’segreti riposti in un’amicizia traditrice. Ferdinando, l’allegarci dunque ignoranza non vale, non tiene. Venute le cose nostre in questo termine, piuttostochè doloroso, dfe sperato, scoppiava la rivolta Viennese, onde costretto a fuga precipitosa il fabbro precipuo de’nostri mali, voi medesimo, a guardia de’nostri, foste obbligato riparare fuor delle mura, fatte troppo minaccevoli e mal sicure a voi stesso. Allora cominciaste a capire che la forza del popolo non è affare da prendersi a gabbo, e che, quella cieca confidenza ne’sol-dati, nell’armi e ne’giustizieri, nella quale riposavate sicuro con tanta ostinatezza d’indomabile orgoglio, era, piuttostochè puntello, una fragile canna. Vi recaste allora una mano al petto, e prestamente largiste costi-tuzionc e libertà di stampa; ma in quell’ora, colesta non era più carità di suddito, bensì carità di voi stesso, troppo chiarita dalla fermezza in opprimerci fino a quel punto estremo. Che fiducia adunque meritava quest’atto estorto? Quale guarentigia ci era data nel mancamento di tante precedenti promesse, non che fallite, ostinatamente violate? Nessuna. Perciò in quell’amplitudine di larga concessione, ristretta però e solamente raccolta nell’indeterminato valor de’vocaboli, noi non abbiamo scoilo che l’estremo termine di debolezza a cui da una presunzione ingannevole loste condotto. Talché restando voi quel medesimo di prima, pronto quindi a ricalcare le orme usate, ogni volta che vi fosse dato modo di rilevarvi, non era per noi veduta altra maniera di probabile scampo fuorché scuotere risolutamente quel giogo che ci opprimeva, cacciandovi dalle nostre cillà e dalle castella, e facendo ogni possa per costringervi a ri-