221 h’ insurrezione lombardo-veneta non fu un fatto isolato di reazione contro l’oppressione locale; fu, per così dire il risultato militare del moto generale italiano, l’assalto dato dalle forze lombarde, per conto della guerra nazionale, al campo da dove l’influenza dell’Austria si stendeva su tutta la Penisola. Da un punto all’altro d’Italia, nell’eroica Sicilia, in paesi dove un soldato dell’Austria non ha mai, nell’ultimo mezzo secolo, messo piede, il grido » fuor 1’ Austria « suonava, inseparabile dalle battaglie combattute per la libertà cittadina, prima che l’insurrezione lombarda lo raccogliesse. E quando la popolazione lombardo-veneta, che trentaquattro anni d’uua dominazione alternante fra blandizie e ferocie, fra i terrori dello Spielberg e le corruttele di Vienna, non avevano potuto domare, dopo essersi mantenuta per anni in permanenza dì congiura contro lo straniero accamoato nelle sue città, sentì giunta 1’ ora e si levò simultanea su tutt’i punti, mentre appunto l’Austria, giova insister su questo, disperando vincerci colla minaccia piegava all’arti delle concessioni, l’Italia intera acclamò, come sua, l’insurrezione delle cinque giornate. Da ogni angolo della patria comune convennero volontari al campo italiano. Davanti al fremito concorde delle popolazioni, tutt’i governi d’Italia dovettero prepararsi o fingere di prepararsi agli aiuti. Il più vicino al teatro della guerra fu costretto, da una minaccia di insurrezione, a spingere l’esercito oltre il Ticino. In quel momento splendido d’entusiasmo e di fratellanza, la voce di tutta Italia proferì sentenza irrevocabile: VJustria non dominerà mai più pacificamente nel Lombardo-Veneto. Poco importa il fatto momentaneo d’una disfatta; poco importa che i governi abbiano deluso, ammorzato, tradito quell’impeto; che un concetto dinastico abbia mutato faccia alla guerra, e ristrette le sue proporzioni; che le forze meritamente salutate liberatrici abbiano dovuto, pei' tattica prima inetta, poi perfida di chi reggeva, trasformarsi inconscie in istromento di rovina al paese. Le colpe dei prìncipi hanno reso per poco impotente il volere dei popoli, non Fhanno mutato. Rinfiammato dalla immeritata sconfitta, e ammaestrato dalla esperienza, risorgerà a nuova prova. E per gli uomini accreditali alle conferenze, come per qualunque voglia addentrasi con severo esame nelle condizioni del nostro paese, debbe rimaner fermo che l'Austria non regnerà più mai pacificamente in Italia, e che, se prima il dispotismo non cancelli ogni scintilla di vita italiana, l’insurrezione riarderà continua, incessante, implacabile, finché l’ultimo Austriaco non avrà ripassato il cerchio dell’Alpi. Ogni accordo fondato sovr’altra base lascerebbe perenne una cagione di guerra nazionale in Europa. E questa guerra nazionale non è figlia di cieco odio di razze che possa deplorarsi anziché soccorrersi, o d’istinti lesi di benessere materiale che possano addormentarsi con qualche concessione di miglioramenti amministrativi o di libertà strappata all’Austria dai gabinetti pacificatori: è guerra meditata, preparata, decretata dalla coscienza d’un popolo che vuole libertà non data ma propria; guerra santa d’uomini che, conquistato, attraverso lunghe sventure e persecuzioni, un grado d’educazione nell’incivilimento politico, sentono i destini maturati ad essi dal tempo e vogliono operare a compirli, sentono giunta l’ora d’entrare, non liberti ma liberi, polla fratellanza delle nazioni emancipate e si dichiarano pronti ad ogni