376 l’Adige fino a Salisburgo, avvincendo per una stessa catena Lombardia. Venezia, Tirolo; le tre gemme più preziose del diadema ereditario. Milano, trovandosi abbandonata inerme al peggior suo nemico, sorse mormorando di terrore e dispetto; e col Podestà accorse al vicegovernatore, perchè impedisse l’assassinio della città. E il vicegovernatore O’Don-nel, sorpreso da quella folla, abbagliato da quelle coccarde, dalle bandiere, dalle armi, chiese misericordia; spedirebbe al viceré, lontano poche ore, e che certo consentirebbe ogni domanda. Al viceré ! allo spregevole mentitore! all’ipocrita di trent’anni! « No, no; troppo tardiI abbasso i Tedeschi, governo provvisorio » e il Podestà e i prudenti e tuo zio Beccaria invano si adoprano a sedare. Se non che taluno grida: « alla Polizia a liberar i detenuti politici! » E si corre alla Polizia. Alla domanda regolare del Podestà, il Torresani risponde no. Avverti bene, per seguir la serie delle austriache viltà, che 0’Donnei aveva emesso un decreto, che creava la guardia civica, e aboliva le guardie di Polizia. Queste invece con accanimento cominciarono il fuoco : li seconda il cannone, forse a polvere, giacché nessuno offese : ma il Popolo vinse; il palazzo fu preso. Allora nuove promesse: la sera alle sei si vada al palazzo di città; ivi si riceveranno le armi. Il dì passa come suole la vigilia d’una battaglia; si preparano barricate; si adunano armi, quelle che il furore ministra : giacché un Popolo che voleva insorgere contro 1111 esercito non erasi allestito di fucili e di munizioni. La sera si va al palazzo di città; ma le armi non vi sono; s’indugia, non si sa il perchè, quando s’ode un salva chi può. Alcuni fuggono, gli altri sono sorpresi dalla truppa, che sbucata dalle varie parti, circonda quel palazzo, e prende quanti può. Qui non vogl’io narrarli per filo e per segno gli avvenimenti. Ad ore più calme; ora scrivo ancora in mezzo alle barricate, fra i rintocchi delle campane, fra l’alternare dell’all’erta : e tu senti cerio il bruciore d’un fuoco di bersaglieri in questa lettera, dove volea solo mostrarti le infamie di que’ giorni finali. Te ne dirò alcune. Da seicento persone, colte con quel tradimento nel palazzo civico, furono spinte a calci e piattonate fin nel castello. Tra questi il placidissimo poeta Felice Bellotti; il delegalo Beilati con sua moglie c due bambini, la quale dalle percosse cascò tre volte per via. Là furono cerniti, e alcuni rimandati subito; gli altri trattenuti e chiusi in tane, senza letto nè altro cibo che scarsissimo pane di munizione. Ma questo passi, giacché non aveano pane per sé: ciò che eccede ogni credenza è il trattamento che usavano a costoro per ¡spaventarli o avvilirli. Due volte annunziarono loro che bisogna morire; manderebbesi il prete perchè disponessero dell'anima loro. E il prete venne, e si aspettavano da un’ora all’altra il massacro, come nelle prigioni del Terrore a Parigi. Due volte furono cavati di carcere; e messi in (ila, come per fucilarli, poi s’annunziava che la clemenza del maresciallo li lasciava vivere. La clemenza di lui fece loro levare le manette, dopo che l’ebbero portate ventiquattro ore. La clemenza stessa li fa una volta schierare tutti, e innanzi loro sfilar le truppe, e dire e fare da queste le più basse contumelie ai prigionieri. Quanti furono fucilati. Un giorno ne