343 »lancili e »finiti dal brutale bersaglio e dalle incessanti piattonate clic ci piombavano da ogni parte. Finalmente a tre ore di notle giungemmo a Romans, ove una pressa di popolo ci attendeva, come se noi fossimo un serraglio di bestie feroci, pei- insultarci, e con grave fatica potemmo scappare dal furore di quei forsennati^ proteggendoci i granatieri del Kinschi, feroci manigoldi ancb’essi, i quali ci cacciarono in una lurida stalla, ove giacevano altri quaranta infelici ridotti agli estremi della vita. — Cademmo a terra estenuali dai patimenti, vinti e oppressi assai più dai dolori morali che dai fisici. Cessati gl’insulti e la rabbia del popolo, non per questo cessarono i nostri tormenti, perchè allora successe un tramestio di ufficiali di ogni rango, i quali venivano a godere del nostro Iagrimevole stato, insidiandoci con modi aspri e nefandi, svillaneggiandoci con ogni sorta di eresie che la loro barbarica lingua possa suggerire. L’ira di Satanasso vestiva la faccia di que’vili; il dolore estremo de’patimenti che soffrivano i nostri feriti, metteva un contrasto così orribile e fiero, che le boglie di Dante presentavano alla mente una scena meno trista. Era spettacolo pieno di compassione e di terrore il vedere in quel tugurio illuminato appena da fiocca luce, malati languenti per sanguinose ferite, perseguitali da sicari sanguinosi, senza pane e senz’acqua, sdrajati sulla nuda terra, quasi snudati, aspettando, come un benefìcio del cielo, l’istante di essere fucilati. Ma il cielo ci riserbava ad altri strazj, ad altre pene, ad altri martini. Il mattino vegnente una calca di popolo più furibonda ancora ci attendeva per rinnovare i loro insulti; per disfogare la loro rabbia, per bestemmiare non solo il nome augusto del Sovrano Pontefice, ma quello ancora di Dio. Eravamo tutti incatenati per proseguire il nostro Calvario, e quanto più ci avvicinavamo a Gradisca e Gorizia, e più il popolo e la plebaglia si affollavano sulla strada per ripetere le solite abbominevoli maledizioni, per ¡sputarci in faccia e coprirci di ogni più vile immondizia. Ma la pressa, le minacce, la crudeltà erano specialmente rivolte contro di me, perchè volevano ad ogni patto ch’io fossi un Generale. Lungo la strada, per più miglia, v’era un continuo va e vieni di carrozze, piene di persone signorili, le quali ci scortavano avide di vederci; e mi parevano lupi voraci che volessero approfittare della loro forza bestiale per gettarsi sull’agnello. Rifiniti dal lungo viaggio, seminudi, co’piedi scalzi, arsi dal sole, sfiniti dalla fame e dalla tormentosissima sete, pieni di dolore e d’ira, arrivammo al ponte dell’ Isonzo, ove non solo gli uomini, ma ancora le donne del volgo e quelle dell’alta aristocrazia, i fanciulli, ognuno fece orrenda prova di barbarie volendoci ammazzare, fucilare; insomma tutto avrebbero voluto fare su noi, se la mano divina non ci avesse salvati, — Arrivati in Gorizia, il furore non ebbe più ritegno ; uomini e donne, plebe e signoria tutti s’invilirono, lutti ripudiarono alla loro dignità per istraziarci con atti vili ed infami, sputandoci in faccia e percuotendoci in modo che dalle lividure non si avea più forme umane. Nè le scorte de’ croati bastarono Per frenare tanta rabbia, che spìntisi contro me, per la barba e pe’ capelli n'i presero, e mi gettarono a terra, e più fiate io co’ mici concaptivi « co’ croati rotolamo a guisa d’ una palla che si riversa da un pendio'#