342 dall’altra parte che difficilmente si avrebbe potuto rimanere colà senza correre pericolo di una morte sicura, perchè essi si andavano sempre più ingrossando, risolvemmo di ritornare ai nostri posti di Jalmico, non a-vendo avuto in tutta la giornata che quattro morti c pochi feriti, mentre moltissimi furono quelli del nimico; ciò che confermai poscia essere stati oltantasette i morti, fra quali un comandante e sette ufficiali, e dodici carrettoni di feriti. Ritornati dunque a Jalmico sul cadere del giorno, il Palatini fece rinforzare tutte le posizioni più esposte^ indi ci ordinò di occupare le nostre case, e di far fronte al nimico se in quella notte tentasse 1’ assalto. Risoluti nella nostra determinazione di difenderci ad ogni costo, ubbidimmo; ma pochi minuti trascorsero, e la vedetta del campanile ci avvertì che correvano sopra noi tre a quattro mila uomini, per cui il Palatini visto che assolutamente non potevamo resistere, fece tosto suonare la ritirata; la quale io co’miei non sentimmo, forse perché eravamo dal lato opposto del paese, c fors’anche perch’oravamo intenti a rinforzare tutte le porte. Intanto i Bellunesi, credendo eh’ io fossi innanzi a loro, o avessi presa diversa via per alla volta di Palma o di Udine, se ne retrocedevano alla spicciolata come meglio urgeva il caso : e qui è appunto dove comincia la dolorosa storia della mia prigionia. Avevamo già puntellate le porte della casa, ov’ io con ventidue dei miei eravamo disposti di tener fronte fino all’estremo della vita, quando tutto ad un tratto udimmo un immenso frastuono nel paese, il quale semiire più si avvicinava, e in quello scorgemmo appiccato il fuoco in molte case. Allora vedemmo che per noi non v’era più scampo, e quasi istupiditi dalla nostra terribile situazione, non sapendo quello che facessimo, salimmo dal primo al secondo piano. Due de’miei compagni disperata-mente si gettarono giù dai balconi e si misero a fuggire; io, terzo fra loro, feci lo stesso, e forte delle mie armi sperava di aprirmi un varco; ma ormai il paese era tutto circondato, nessun scampo vi era dunque per me, se non quello di cadere negli artigli dell’austriaco ladrone. Poco dopo una torma di croati invasero la casa in cui 111’era riparato cercando un imitile salvamentOj perchè l’incendio essendo dappertutto fui costretto ad uscire per non essere abbruciato, e vi caddi nelle zanne di que' barbari. ì quali appena mi videro, mi misero un laccio al collo, m insultarono con ogni sorta di brutalità, mi derubarono, mi percossero come Cristo alla colonna. Rimasto quasi nudo, si disponevano di appiccarmi ad una trave, che da un muro sporgeva alquanto; quando vi giunse un Generale, il quale impedì che non venisse commesso quell’atlo nefando, indi rivolto a me, disse: — chi sei? — ed io a lui — sono un veneto; — no, mi rispose con ghigno sdegnoso, tu sei un Generale; — sarò ciò che vuole, soggiunsi (1). Terminate queste interrogazioni, mi legarono insieme ad un altro, e sì strettamente che patimmo marlirii immensi ; indi ci misero in mezzo di dieci croati, e a calci, a pugni, a schiaffi ci spinsero lungo la via che da Jalmico mette a Romans, attraversando tutto il campo, ( i) Mi credettero un Generale, perchè nella casa trovarono il mio vestito di g"ar' dia civica, e avendomi posto l’elmo »ul capo, volevano per ciò ch’io fossi tale.