344 Finalmente quando Dio fu stanco di quella scellerata genie, venimmo tradotti nel cortile di un’ ampia caserma, dove restammo molte ore esposti alla pubblica indignazione, e al ludibrio che di noi facevano i soldati versandoci dai piani soprapposti i vasi d’immondizia. Ed intanto il popolo gridava: — morte a Pio IX, — Dio d’Italia Ferdinando nostro impe-ratorej — a Pio IX forca, forca! ! Venne benigna la notte, e un Generale avvicinatosi a noi, ci disse che ci avrebbe trattati bene. Alle quali parole menzognere, risposi: — che dovrebbero sapere come sono trattati in Italia i loro prigionieri di guerra. — Dilfatti ci tradussero dal cortile al terzo piano della caserma, ci collocarono tutti in una stanza, e ci lasciarono patire quella notte ogni sorta di desiderj e di bisogni. Il giorno appresso alle quattro del mattino c’ incatenarono due a due, ci posero in mezzo della civica e de’ croati, c ci condussero nella fortezza che sta sopra alla città, guardata da custodi inflessibili e minacciosi. E due a due ci cacciarono per entro un buco terreno che metteva in una prigione separata, e in quella oppressione ci fu d’ uopo passare sei giorni mangiando poco pane^ e bevendo acqua. Pensi il lettore in qual misero stato eravamo dopo que’ tanti e sì crudeli tormenti, e dopo quarantotto ore di continuo digiuno ! Era il giorno di Pasqua, quando udii un trar di fucili; chiesi tosto al custode cosa indicavano que’sbarri; e colui mi rispose che erano stati fucilati parte de’ nostri compagni, e che domani toccava a noi una sorte simile. — Dio volesse, tutti gridammo, che così avrebbero fine i nostri ■mali; ma quello era un sanguinoso scherno, poiché il dì appresso fummo schierati tutti ventitré prigionieri in un corritojo, e posti dinanzi dodici individui, consiglieri e magistrati, i quali ci dissero che ricorrendo l’onomastico di S. M. Ferdinando, S. Eccellenza il conte Ilartig, plenipotenziario, avea risoluto di accordarci piena grazia (1); alla quale parola vinto dal massimo patimento morale caddi a terra come morto. — Poco dopo un consigliere aulico mi condusse in città per presentarmi allo stesso Hartig, il quale m’accolse amorevolmente , e volle darmi una commissione d’un quadro. — Dico questo perchè desidero che si sappia che l’ira non mi fa dimenticare una cortesia ricevuta. Dopo questa breve conversazione fui consegnato alla civica, onde mi guardasse fino al dì seguente, perchè dovea partire insieme co’ miei compagni di sventura per alla volta di Udine. Sennonché alla caserma della civica essendo avvenuto che la curiosità di vedermi fosse se non così brutale, certo altrettanto schernitrice come pel passalo, così mosso a pietà della mia lagrimevole situazione, Stefano Stefani pittore, ricorse al comandante della civica, e lo pregò di concedergli ch’io in quella notte polessi approfittare di trovar riposo e conforto nella sua casa. La caritatevole domanda trovò un cuore umano, e ottenne quanto il gentile desiderava, per cui mi accompagnò nella sua casa ospitale, ove mi assistette come meglio occorreva. Di questa amorevole carità io gliene sarò grato eternamente. (1) Siccome corsero varie voci sulla mia liberazione, cosi dichiaro che non la devo nè a duchesse, nè a principi, nè a Generali, ma alla capitolazione di Udine, nella quale venne stabilito che io e gli alili prigionieri dovessimo essere liberi.