— 64 — anni in campagna. Questi due anni rappresentano il periodo più interessante e più vergognoso di tutta la mia esistenza. Io vissi di una vita tutta dedita al lavoro; non diedi tutto me stesso a Elena Paylovna ; le funzioni di giudice conciliatore mi prendevano più della metà del mio tempo; l’amore per me, era piuttosto un riposo; una distrazione e quindi non ho neppure la scusa della passione potente ed invincibile. Gli Okontsev passavano l’inverno nel capoluogo del governatorato: io presi in affitto un padiglione nella corte della medesima casa che essi abitavano e mi recavo da loro ogni volta che avevo un momento di libertà. Non posso dire che io avessi sempre la coscienza tranquilla. Mi accadeva talvolta di non poter guardare senza un sentimento di orrore, il viso di Aljoscia, spirante fiducia; ma questa stessa coscienza del mio delitto, unita alla continua paura di essere sorpreso, conferiva al turpe romanzo, un fascino speciale. Sul finire del secondo inverno Aljoscia prese un raffreddore e ammalò gravemente. Elena Pavlovna non si allontanava dal letto del malato e con sublime abnegazione faceva da suora di carità; ma quando Aljoscia cominciò a star meglio essa non potè nascondere l’ambascia che la tormentava e che andava ogni giorno crescendo. I medici avevano ordinato ad Aljoscia di recarsi a passare un anno in un paese di clima temperato. Mandarvelo solo, Elena Pavlovna, non lo poteva; separarsi da me, le sembrava impossibile. Invano cercai persuaderla che mi sarei recato io stesso, l’estate, all’estero: rimase inconsolabile. Verso gli ultimi di aprile i medici dichiararono che Aljoscia era in grado di viaggiare e la partenza fu fissata di lì a due giorni. Quella sera restai con gli Okontsev fino a tarda ora. La serata era così calda che la porta del balcone era rimasta aperta e Aljoscia con delizia respirava quell’aria fresca di primavera. Questa volta Elena Pavlovna apparve