— 26 — rubli, che, diceva lui, potevano salvarlo. Dopo breve contrasto gli firmai uno chèque. Volle obbligarsi con una cambiale, ma gli risposi che non faceva di bisogno. Passati i due mesi, non fu, naturalmente, in grado di pagare e cominciò ad evitarmi. Durante la mia malattia mandò più volte a chiedere notizie; ma lui, non si fece mai vedere. Quando si fu avvicinato alla mia bara, io lessi nei suoi occhi, l’espressione dei più svariati sentimenti : compassione, vergogna, paura e, perfino, giù, in fondo, in fondo alla pupilla, un’ombretta di gioia, al pensiero che oramai, aveva un creditore di meno. Del resto, egli stesso fu sorpreso di questo pensiero; ne ebbe gran vergogna e si mise a pregare con fervore. Nel suo cuore una gran lotta si combatteva. Egli avrebbe dovuto immediatamente accusare il suo debito; ma, da un’altra parte, perchè Io avrebbe fatto se non era al caso di pagarlo? Pagherebbe col tempo. Ma intanto... e se lo sapeva qualcuno, di questo debito? Non ne avevo io, chi sa... forse, preso nota in qualche taccuino? No! No!... Meglio accusarlo subito... Miscia Sviaghin, con aspetto risoluto, si avvicinò a mio fratello e cominciò a domandargli della mia malattia. Mio fratello rispondeva a malincuore, e guardava ora qua, ora là; la mia morte gli conferiva il diritto di essere distratto e altezzoso. — Vede, principe — cominciò balbettando, Sviaghin —io ero debitore verso il defunto... Mio fratello cominciò a prestar orecchio ed a guardare il suo interlocutore con occhio che interrogava. — Volevo dire, che... io ero debitore verso il defunto, di molta, molta riconoscenza. Tanti anni di servizio passati insieme !... Mio fratello gli voltò le spalle, e il povero Miscia Sviaghin tornò al suo posto di prima. Le sue guancie vermiglie parevano due mantici in azione; gli occhi correvano