— 27 — inquieti per la sala. Fu quella la prima volta, dopo la mia morte, che mi dispiacque di non poter parlare. Avrei tanto voluto potergli dire: e tientili quei cinquemila rubli; i miei figli ne hanno abbastanza, di danari... La sala si riempì in un momento. Le signore entravano, per la maggior parte, due a due, e prendevano posto lungo le pareti. Quasi nessuno mi veniva vicino ; pareva come se avessero vergogna di me. I nostri più intimi domandavano a mio fratello se sarebbe loro concesso di vedere mia moglie; mio fratello con un inchino silenzioso, accennava alla porta del salotto. Le signore, irresolute, si fermavano un momento sulla soglia; poi, abbassata la testa, si slanciavano nella stanza, come fanno i bagnanti che, dopo un po’ di incertezza, si slanciano risolutamente a capofitto nell’acqua fredda. Alle due si trovarono riuniti nella sala tutti i personaggi più altolocati di Pietroburgo, e se io fossi stato di mia natura, vanaglorioso, la vista di quell’assemblea mi avrebbe certamente recato immenso piacere. Vennero perfino certi personaggi, il cui arrivo veniva annunciato sottovoce a mio fratello che correva fin sulla scala per riceverli. Io avevo sempre ascoltato con gran tenerezza le preghiere della «panikhida», sebbene ci fossero molte cose che non capivo. Più di ogni altro, mi rendevano perplesso le parole «.vita senza fine», questa espressione, nell’uffizio dei morti, mi pareva un’amara ironia. Adesso tutte queste espressioni hanno acquistato, per me, un senso profondo. Io stesso vivo di questa « vita senza fine », e mi trovo precisamente nel luogo «ove non, è, nè duolo, ne sospiri». I sospiri degli uomini vivi, che giungevano fino a me, mi sembravano invece, estranei ed incomprensibili. Quando i cantori intuonarono il « Pace all’anima del tuo servo defunto... » quasi in risposta, si udirono qua e là per la sala, dei singhiozzi contenuti. Mia moglie cadde in deliquio, e la portarono via.