— 19 — mi pregò di non parlar di nulla a sua moglie che era molto nervosa e portata al misticismo. A pranzo c’erano molti invitati; ma il padrone di casa e io serbammo un silenzio così ostinato durante tutto il pasto, che le nostre mogli ci gratificarono, più tardi, di un severo rimprovero collettivo per la nostra inurbanità. In seguito, mia moglie si recò spesso in visita al castello Laroche-Modin, ma io non potei più decidermi a mettervi il piede. Entrai in gran dimestichezza col conte; egli veniva spesso a trovarmi, ma non insisteva nell’invitarmi perchè capiva benissimo la ragione che mi spingeva a declinare i suoi inviti. Il tempo, poco a poco, tolse vigore all’impressione in me prodotta da questo strano episodio della mia vita; anzi, io cercavo di non pensarci, riuscendomi quel ricordo, molto penoso. Invece, così com’ero nella bara, cercavo di ricordarmelo in tutti i suoi particolari, analizzandolo con la massima imparzialità. Siccome oramai ero fermamente persuaso di aver vissuto nel mondo, prima di chiamarmi prin cipe Demetrio Trubetskoj, non v’era più dubbio per me che io avessi altre volte abitato il castello di Laroche Modin. Ma in che qualità? Ci avevo avuto stabile dimora, o vi ero capitato per caso? Vi ero padrone?... Ospite? Forse un palafreniere? O... un contadino qualunque? A queste domande io non potevo rispondere. Una sola cosa mi pareva indiscutibile: io dovevo avervi molto sofferto; altrimenti non avrei potuto spiegarmi quel sentimento di tedio profondo che s’impadronì di me quando entrai nel castello, sentimento che mi faceva soffrire ancora, ripensandovi. Talvolta questi ricordi prendevano forma alquanto più concreta; qualcosa come una specie di filo cominciava a stabilire un nesso fra immagini e suoni; ma il russare all’unisono di Savelij e del sacrista, mi distraeva, il filo si spezzava e il pensiero non riusciva a riprender forma.