588 46 Aprile. (idalla Gazzetta) Di quale fortissimo amore ¡ Dalmali abbiano sempre amato Venezia, in che guisa abbiano offerto i loro petti magnanimi in sua difesa, quante lagrime abbiano sparso come videro questa Donna del mare trarsi di capo il ducale ornamento, lasciarsi cadere di mano lo scettro e porgere la destra allo straniero per essere da lui dominata; tutte le antiche e recenti storie ne fanno ai posteri lede non peritura. Ora non è a dirsi quanta fo*sse la gioia che ai Dalmati di Venezia ricercava il-cuore in quel giorno memorando de! 22 marzo, in cui da lotte le labbra usciva quella magica parola Vita San Marco! e dopo dieci lusfri di orrenda schiavitù, questa maravigliosissima delle città ritornava libera e di se medesima assoluta signora. Che questa sia stata opera di D'°5 anche i più ciechi nello intelletto ed i più corrotti nel cuore lo hanno confessato. E i Dalmati, sempre lìdi alla religione infallibile dei padri loro, sempre conformi nell’ operare ai dettati di lei, fecero azione religiosa ed ai Veneziani carissima nel ricoverarsi unanimi a pie’ dell’ altare il giorno 12 del corrente mese di aprile, e propriamente in S. Giorgio, nella scuola della loro nazione, per ivi rendere solenni azioni di grazie ail’Altissimo, che di tanto benefizio Venezia aveva prodigiosamente favorito. Monsignore canonico Planeich, uno fra loro, da due dalmali sacerdoti assistito, offeriva a Dio l’incruento sacrifizio; ed eletto coro di professori di sante e soavi melodie il sacro recinta faceva risonare. Fornite le quali anziché l’inno eucaristico fosse intonato, il benemerito cappellano di quella scuola, don Luca Antunovieh,. proferì tali parole, che uscitegli più dal cuore che dalle labbra destarono a buon dritto un religioso entusiasmo in quei tutti suoi compatriotti a cui egli le dirigeva. Alla divina Provvidenza, a tutto fiore di ragione, avendo egli attribuito il rivolgimento di sorti a noi avvenuto, ed usate a tal uopo le stesse parole del rigeneratore d’ Italia, del massimo d’infra gli uomini de’ nostri giorni, di Pio JX, discese a favellare dei motivi che hanno i Dalmati s;ioi di gioire dei presenti (atti: quei Dalmati, egli diceva, « eh’erano pronti ad impedire la vergognosa caduta di Venezia » se il cenno, non ii potere non fosse loro mancato. Quindi, caldo di santa carità di patria, rammentava a’ suoi che « quella libertà, onde in Venezia di presente godiamo, In » a noi restituita anche per lo ardore, le cure, le sofferenze di uno cliia-» rissimo fra’ nostri compatriotti, onore c gloria della nostra nazione, » astro più fulgido del nostro cielo, gèmma più preziosa della nostra ter-» ra. al quale, se nel cuor nostro abbiamo noi eretto un monumento ih » riconoscenza, la storia, testimonio dei tempi, con auree cifre $mmài>-¿ chévoli ai posteri vergherà una pagina che fia per accoppiare il nome » suo a quello dei sommi genii che questa classica italiana terra hanno » illustrato. » E si ascondesse pure in sé medesimo il Tommaseo in udendo di sé tali parole : che se questa sua umiltà torna a .lui decorosa, la lode che usci dalle labbra allo Antunovieh risonò cara all’ orecchio