396 23 Agosto. (dalla Gazzetta) Jeri sera si adunava in sessione straordinaria il Circolo nazionale, e un infinito concorso di persone stipavano la sala, gli anditi, le scale, sicché molti dovevano tornarsene. Esposto dal presidente con brevi parole lo stalo delle cose nostre piene di pericoli e di timori, ponevasi in discussione se il Circolo dovesse protestare contro l’armistizio, sottoscritto il dì 9 in Milano dal Co. Sa-lasco, capo dello stato maggiore del nostro esercito. All’unanimità e per acclamazione venne adottala, in mezzo a fragorosi applausi, la seguente protesta : AI POPOLI D’ITALIA. Il popolo della città di Genova, non ultimo per sacrifizii alla patria, a nessuno secondo in amarla, giacché si sente Italiano per sangue, per affetti, per commerci, per tradizioni, e sul marmo di Portoria risoluta-mente giurava di volerla non profanata dallo straniero, libera e unita, se mai tacesse in questi supremi istanti, mentre si mercanteggia e si uccide turpemente la patria, mancherebbe a sé stesso, alla vita propria, ai giuramenti fatti, all’Italia. Nè il popolo genovese ha mai chinato lo sguardo dinanzi al pericolo, ha mai sofferto che vergognosa taccia offuscasse il suo nome. Oggi quindi si leva in piedi e protesta contro un preteso armistizio, traditore pei nostri fratelli di Lombardia e di Venezia, disonorevole per le nostre sì valorose milizie, finale condanna delle libertà italiche; e senza avvertire che offende vitalmente le leggi dello Statuto, e che quindi riesce nullo per sua natura, protesta in faccia agli uomini e a Dio contro sì fatta vergogna, e la rimanda sul volto de’tristi, che l’han voluta. Egli, parato ad offrire il suo oro e il suo sangue, ma geloso delle sue libertà, del sacro tesoro della gloria nazionale, non può riconoscere un atto, che ci cancella dal numero delle indipendenti nazioni. E quest’atlo non è che il preludio di quello, col quale dovrebbesi comperare la pace. L’onnipotenza del popolo in cinque giorni spezzava le catene tedesche dal Ticino a Gorizia; tutto cadeva, eccetto Peschiera, Verona e Mantova, dove s’intanava un esercito sbaragliato. In quattro mesi di guerra ordinata, con numerose milizie, forti per ordine e per amore alla patria, che sempre vinsero di faccia al nemico, che lutto soffersero lietamente, i nostri condottieri con tanta sapienza s’affaticarono, da perdere tutto quello che il popolo aveva guadagnato. Milano, che liberavasi con trecento fucili da caccia^ la si consegnava agli Austriaci difesa da più di settantamila baionette. E la perdila costa un'ingente somma: i sospesi commercii; un esercito dissangualo, disperso, più che da ferro nemico, da studiali disagi, da pensata fame; ventimila uomini tra morii, feriti e languenti per febbre; centomila persone poveramente raminghe per le terre svizzere e piemontesi: e perfino l’indipendenza, se l’Italia non provvede a sé stessa. Mentre gran parte d’Italia, negli anni scorsi, giaceva alfiacchita, incatenata da governi nell’ozio, pur instava la bellissima e fiera milizia della