IL FOLKLORE E IL d’aNNUNZIO 95 Vi sono pagine, come le prime del cap. VI e le altre del VII, che concentrano tante nozioni e prospettano tante figure, tutte scolpite al vivo e parlanti, che altri avrebbe diluite in descrizioni senza fine, e che portano in sé stigmati e impronte di generazioni remote, immutate e immutabili. Uomini dall’aspetto bieco, femmine impudenti, sonnambule, giocolieri, ciurmatori, e poi i paralitici, gli epilettici e i malati d’ogni specie più turpe e nauseante, monchi, storpi, gobbi, rachitici, lebbrosi; e poi i degenerati, i corrotti, i perversi d’ogni genia, riempiono la scena di orrore e di pena, dandole colore di sangue e senso di abbrutimento; quelle misere che si trascinano carponi sul solco del pavimento del tempio scavato con le ginocchia di pellegrini precedenti, e s’agitano in convulsioni demoniache, e baciano la polvere sanguigna sulla quale tracciano croci con la lingua sanguinante, seguite da schiere innumerevoli, specie di rettili umani, fetide e lerce, rappresentate con vivezza crudele; quelle altre che alzano le voci stridule e roche, e mostrano piaghe e ferite e deformazioni per commuovere alla carità i passanti, e importunano sino alla esasperazione, sino al soffocamento; l’uomo della grazia, come lo chiama il Poeta, che porta sotto braccio per diecine di miglia, soffocato dalla polvere, infiacchito dal sole ardente, ma sorretto dalla fede, il voto di una gamba di cera che si sfa, e va e va verso il santuario, sino allo