IL FOLKLORE E IL D’ANNUNZIO J53 « Sopra Luco ewi un monte erto e serposo nomato Angizia, come la matrigna tua, dove salgo per far preda. E v’ era una città, nei tempi, una città di re indovini. E sonvi le muraglie di macigni ed i tumuli di scheggioni pel dosso. E quivi su, cercando in luogo cavo, trovai d’intorno ad un ossame tre vasi di terra nera coperchiati. E nel primo trovai ferro, nell' altro fiòcini d’uva e tritoli di fave, nel terzo queste cose che ti dono ». Leggende e tradizioni, superstizioni e simboli s’intrecciano stranamente, come, appunto, nelle fantasie di simile gente, cui una fede inconcussa e cieca conferisce un’ austera dignità tra di sacerdote e di savio antico. La tradizione latina di Angizia, sorella di Circe, dea dei serpenti, ricordata da Virgilio (En.e I), intrecciata alle storie dei serpi, delle vipere e alle virtù delle erbe, ravvivata da scoprimenti di grotte sacre e di altri avanzi comuni, perpetuata dal culto dei serpenti, tuttora vivo nel paese, ancorché disvariata, sopravvive ancora sotto quelle forme che sono care al popolo le quali il Poeta ha ingentilite ed elevate. Sulla bocca del serparo, che può ricordare, non del tutto immeritamente, le vicende della città antichissima, le tradizioni assumono un carattere di attraenza: Gigliola è ormai intenta alle parole di lui. Ormai i due interlocutori si