CAPITOLO PRIMO ogni forma l’uscita del denaro dallo Stalo, poteva aver consistenza dappertutto, maggiore ne doveva trovare in Venezia, dove la decadenza del costume, il lusso sfrenato, i continui bagordi e la vita spensierata avevano creato condizioni particolari. Caduto l’impero marittimo, uno dei grandi imperi di allora, per l’indebolirsi e il rarefarsi delle fortune delle fa- donni Segretario si recitò decreto del Senato stesso di promulgare ed accettare il Concilio: dopo di che si scrissero ducali lettere alli Rettori dello Stato ed alli magistrati della Capitale, in molti delli statuti delle città suddite nella Terraferma sono impresse a stampa e vi sussistono le lettere stesse circolarmente spedite ». Sandi, Principi di storia, op. cit., p. Ili, voi. II, pag. 742. Il Decreto, Arch. St. Venezia, Senato Roma, reg. I (1560-1565), c. 120, è stato pubblicato in Cecchetti, La Rep. di Venezia, op. cit., voi. I, pag. 76. Osserva il Cecchetti che il Concilio « fu -accolto dalla Repubblica veneta incondizionatamente. Lo che — continua — potrebbe far credere o che nelle decisioni del Concilio non v’avesse alcuna parte lesiva le giurisdizioni civili, o che la Repubblica non avesse il coraggio dei proprii diritti. Entrambe ipotesi non giuste. L’accettazione piena non ebbe altrimenti per conseguenza la soggezione del potere civile alla Corte di Roma o alla Chiesa in generale. Ad ogni occasione in cui venissero applicate massime contenute nelle decisioni del Concilio estranee alla religione, il Governo sorse a difendere la propria podestà ». Cec-chetti, voi. I, pag. 76. Ora ci sembra un po’ superficiale questa osservazione del Cecchetti che mostra di non avere esatta idea di quello che siano i canoni del Concilio Tridentino. Certamente non pare verosimile che la Repubblica avrebbe accettato incondizionatamente i canoni di un concilio, che contenessero qualche parte lesiva di giurisdizioni civili, opponendosi a questa accettazione il temperamento stesso della Serenissima : nè si può supporre che Venezia fosse ignorante di quei canoni, se al Concilio erano intervenuti ambasciatori veneti, e se questi avevano mantenuto costante corrispondenza col veneto governo (Lettere dirette ai Capi del Cons. X dai patrizi Nicolò da Ponte e Matteo Dandolo, ambasciatori per1 la Repubblica veneta al Concilio di Trento, 1562-63 e Parti segrete del Cons. X dirette agli Ambasciatori suddetti, con altri documenti relativi al Concilio pubblicati in Cecchetti, voi. II, doe. VI, pag. 25, 46, 62). Pare quindi più conforme a verità asserire che la Repubblica comprese poter accettare simpliciter, senza condizioni, i canoni del Concilio, come quelli che non presentavano alcun pericolo, mentre invece insorse a difendere la propria potestà quando vennero applicate massime « estranee » alla dottrina religiosa, che perciò stesso non erano contenute — come confondendo vorrebbe il Cecchetti — « nelle decisioni del Concilio ». È nota invece la serie di questioni derivanti dalla bolla « In Coena Domini », la cui pubblicazione nel 1770 fini coll’essere sospesa da Clemente XIV. Cfr. : Roma-NIN, Storia documentata, op. cit., voi. IV, pag. 255. — 16 —