CAPITOLO QUARTO prendere all’Ambasciatore di Venezia come fosse opportuno chiarire subito la questione del decreto milanese, il quale senza fondamenti erasi supposto promulgato in Milano. Prima di tutto tur » non poteva essere ciò certamente conforme alla mente dell’imperatrice e « quindi scoperto l’abuso ne feci relazione al Consiglio supremo, il quale mi prescrisse che facessi pur cessare gli abusi » (Arch. St. Milano, Culto P. A., 2131, Memoria del Cristiani (senza data) e Lettera da Vienna, 22 aprile 1754 - Valmagini a Cristiani). Il provvedimento benché provvisorio deve essere 6tato efficace, perchè il card. Millini ringraziava il conte Cristiani in data 22 giugno 1754, di aver trovato riparo a quel disordine che si era introdotto nel modo di eseguire il Reale Dispaccio del 1751, contro le pie intenzioni di Sua Maestà. Dunque fino dal 1754, queste erano chiare per la Corte di Roma. Poiché però a Venezia si facevano richiami continui al noto Dispaccio dell’imperatrice, perchè Venezia credeva, data la mutilazione che ne aveva fatto il Residente veneto a Milano, che si trattasse di una disposizione generale, la Corte di Roma si era trovata nella necessità di dover insistere presso la Corte di Vienna, perchè togliesse ogni equivoco. L’opera del Rappresentante veneto a Milano non giovò alla causa della Serenissima: perchè la grande superficialità del Residente, traendo per leggerezza in inganno la sua patria, veniva a procurarle nuovi fastidi e nuove noie. Il card. Millini insistette presso il conte Cristiani che gli promise di adoperarsi: « penserò al modo — scriveva il Duca Sylva Tarouca Presidente del Consiglio a Vienna a S. E. il conte Cristiani (Arch. St. Milano, Culto P. A., 2131, 19 febbraio 1756) con cui convenientemente sia dato il senso veridico alla Reai Mente, senza interpretazioni troppo generiche e ciò ancor ad oggetto di prevenire ad ogni costringibile apprensione che, dalla Corte di Roma, si potesse concepire stante la controversia eccitata sul Decreto veneto, ben di la ampliato, dal precitato della Maestà Sua ». Nel frattempo il Papa Benedetto XIV aveva scritto personalmente all’imperatrice regina, pregandola insistentemente di ritirare la circolare o almeno di modificarla, essendo essa « cagione non meno dei mali poc’anzi espressi che degli altri che ora esporremo » riferendosi con questo, alle pretese del Senato veneto « che non si è mai scordato nè mai si scorderà di quanto abbiamo fatto nel grave affare di Aquileia », Arch. St. Milano, Culto P. A., 2131, 7 febbraio 1756. Volle l’imperatrice prevenire il desiderio papale, tanto che fu differita di qualche giorno l’udienza che il Nunzio a Vienna aveva chiesto, e fu emanato un dispaccio imperiale il 23 febbraio 1756 nel quale si diceva che, essendo Sua Maestà venuta a cognizione che le sovrane disposizioni del 22 febbraio 1751 erano state interpretate dal Senato di Milano con estensione opposta a ciò che portava l’occasione su cui si emanarono « quantunque espressamente da Noi limitate alle dimande ambiziose ed inconsiderate per i casi non necessarii e simili in correzione del arbitrio presosi dalli Canonici della nostra Collegiata di Monza... prescindendo dalla dipendenza dovuta al Patronato che per fondazione e dotazione a Noi compete su detta Chiesa », l’imperatrice con autentica interpreta- — 150 —