V. — CAPITANO GENERALE vamento alcuno da milizie altrettanto piene di albagia quanto indisciplinate ed esigenti incominciò a togliersele di torno trasferendole nelle isole dell’Arcipelago in sostituzione dei presidi veneti preposti alla esazione dei tributi. Egli faceva così il primo esperimento di quella inanità dei soccorsi stranieri che, in processo di tempo, avrebbe avuto parte capitale nel determinare la disperata situazione che lo costrinse alla resa. Prima che l’inverno giungesse a interrompere le operazioni, piccoli combattimenti di posizione fecero rifulgere il coraggio personale di numerosi patrizi e del Morosini stesso portatosi più volte sulle trincee. Sui trinceramenti detti della Cicalaria, durante un attacco in forze dei turchi, buttatosi disperatamente nella mischia in cui i veneti stavano per soggiacere, risollevò le sorti della giornata ricacciando gli assalitori dopo aver inflitto loro perdite enormi. Poi fu giocoforza accamparsi o rifugiarsi nelle cale al riparo dei venti. Cominciata appena quella stasi forzata, capitarono i rinforzi tedeschi, inutili oramai all’andamento della guerra, pesanti sul servizio dell’intendenza. Francesco Morosini, sistemate le forze di terra e di mare nei modi più convenienti, essendo così trascorsi i tre anni previsti dalla legge per il periodo di comando dei capitani generali, lungi dall’adoperarsi per ottenere la conferma nell’alta carica, rinnovò al Senato la richiesta ch’egli aveva già inoltrata altre 91