M O R O S 1 N I ta regola del vivere » nè la ferma volontà di superare la crisi per rimettersi all’aspre fatiche comandate dall’interesse della Repubblica valsero a preservarlo, sul chiudersi dell’anno, da un fierissimo attacco che parve schiantarlo e gli fece soffrire « per venti giorni continui li più tormentosi dolori che concepire si possano ». Levatosi dal letto si trovò fisicamente così abbattuto da potere a grande stento reggersi in piedi. Ma l’animo, pure presago della fine, non si smarrì. « Non ci sgomenta, egli scrisse tosto al Senato, in data del 19 dicembre, il pericolo della vita, che già sacrificata alla patria, ci sarà sempre, anzi, soave il perderla in servizio ». E al servizio della Patria si illuse di aver la forza di dedicare ancora altri giorni di quei pochi che gli rimanevano, tanto che ne inviò lietamente l’annunzio a Venezia. La nave che lo recava non aveva nemmeno toccata la costa dalmata quando fu raggiunta in mare da un’altra con ben diverso messaggio. Il Doge non solo era ricaduto, ma era stato davvero in procinto di chiudere per sempre gli occhi al sole. Ripresi i sensi, aveva dettato con lucida mente, con stoicismo pari alla grandezza dell’anima ed alla nostalgia per la diletta Venezia lontana, un’ultima lettera, la lettera del commiato supremo; documento ammirevole e commovente, luminoso di serenità, di fede, di passione inesausta. Essa, che recava la data del 2 gennaio del 1693, more veneto, e 328