XIII. — L’ELEZIONE A DOGE meno gravoso, così da indurre coi patimenti del rigido inverno la guarnigione della piazza alla resa. Fatica sprecata. Una intelligente sobillazione delle truppe le rese inquiete e malfide; col pianto nel cuore e sulle ciglia, il Doge si arrese alla evidente necessità di firmare l’ordine di imbarco del corpo di spedizione, e di togliere l’assedio. Sulle navi della Repubblica presero imbarco con gli equipaggi e con le milizie cinquemila abitanti dell’isola i quali confidando nel successo delle armi di San Marco e avendole aiutate, preferivano esiliarsi in Morea piuttosto che arrendersi, soli e inermi, alla vendetta turca. L’armata al termine del 1688 si ridusse alla fonda e alla concia a Napoli di Romania. Quivi giunto il Doge, settantenne, accorato più che stanco, infermò gravemente. La mattina del 9 dicembre, fu colto da svenimento mentre assisteva alla messa. Portato a letto vi rimase a lungo in pericolo di vita; nè riprese il comando ch’egli aveva ceduto il 17 dello stesso mese ai suoi due consiglieri, se non ai 10 di marzo del 1689, quando rimesso in salute « ma si può dire spolpato e in fiacchezza tale che non poteva più reggersi » assistette a un Te Deum di ringraziamento in suo onore. Le notizie dei malinconici eventi giunsero a Venezia meno inattese in Senato che non tra il popolo. Da questo, troppo assuefatto oramai agli annunzi di vittorie, per tollerarne uno men 285