M O R O S I N I locchio il grandeggiare, attraverso le sue gesta, della sua famiglia, inventavano saccheggi, piraterie e concussioni per spiegarne l’aumento di ricchezza. La presa di Chismè era stata ironicamente definita il topo partorito dalla montagna; le azioni navali a nient’altro si riducevano che a « batter l’acqua »; di sicuro non c’era che il crescente corruccio dei barbari e la probabilità di conchiudere « con le perdite e col pentimento ». Francesco Morosini stava ancora scontando la contumacia sanitaria, con gli equipaggi della sua galera, all’isola del Lazzaretto, presso la città, quando già pervenivano al Senato, al Consiglio dei X, alla Quarantia criminale denunce concrete contro di lui. Una di queste denuncie indicava ottanta testimoni delle pretese malefatte del capitano generale. Poiché essa era anonima il Senato avrebbe dovuto, a rigore, non tenerne calcolo, tanto più che questa del denunziare, per una ragione o per l’altra, i magistrati militari della Repubblica al Senato, era diventata, quasi, una triste consuetudine raramente giustificata dai risultati delle inchieste e dei processi. Così non avvenne. « È ritornato, scriveva Giorgio Contarini in una sua lettera al patrizio Giovanni Sagredo, provveditore a Palmanova, è ritornato il capitano generale « seguitato da tre « scritture (denunce segrete) con cento capi di « indoglianza (accusa). Io, ritrovandomi alla 96