dell’anima accorata, e pervicaciamente accorata, tanto spesso nel verso egli portava un motivo sì retorico del dolore : « Nostra vita a che vai ? solo a spregiarla ». L’elegia dal magico incanto soccombeva nel mito leopardiano, recante, sentenzioso nel verso, la dottrina delle morte speranze e delle illusioni. Perdevano ugualmente d’efficacia i moniti generosi del patriota, quando ne’ suoi studi, nello Zibaldone stesso, e con riguardo appunto a Teofrasto pessimista, aggiungeva di lui che per ben due volte salvò la patria. Ma a che prò? Se nella vita il tutto era inutile e vano? Più che le opinioni letterarie, mossero il Nostro contro il Leopardi, la tema delle conseguenze che le sue dottrine potevano recare alla gioventù italiana « troppo abbisognante d’affetti e di idee che dalla sconsolata diffidenza e dall’ozioso lamento la muovano alle operose speranze e agli atti animosi ». Ma un sentimento d’ammirazione per l’Uomo e per il Poeta, testimoniava quella sua lettera mandata all’editore Stella, quando il Leopardi pubblicò a Milano i Dialoghi, e nella quale il Nostro giovanissimo e già dissenziente da lui, diceva che quello gli pareva « il libro meglio scritto che fosse uscito da gran tempo alla luce ». Fu così dei primi ad ele- — 63 —