— 139 — una macìa. La difesa erasi ormai ristretta alla città di V enezia. Sul gran piazzone del ponte avevano i Veneziani eretto la batteria detta di Santi Antonio, per il caso dell’abbandono di Malghera. Sette cannoni e due mortai (che sono bocche da fuoco cortissime, le quali lanciano bombe lungo una linea curva) guernivano quella batteria affidata ad un prode tra i prodi, a Cesare Rossaroll, cavaliere napolitano giunto con molti suoi concittadini a portar l’opera sua alla difesa di Venezia. Il 27 giugno le offese del nemico furono così grandi, il fuoco sì vivo, sì celere e ben diretto, che tre soli cannoni di Rossaroll rimasero intatti. Rossaroll, impavido in mezzo a tanta ruina, non ebbe pensiero che non fosse alla sua batteria. Ed a chi gli consigliava di mettersi al riparo, rispondeva, colla voce potente e l’accento largo napolitano : « La mia palla è fusa, ogg morrò, badate ai pezzi, fratelli miei ». Egli era salito sul parapetto per giudicare dell’effetto del tiro, allorché una cannonata austriaca lo stramazzò giù ferito. « Correggete la punteria del pezzo a sinistra, quello di destra va a meraviglia », esclamò non curante di se. Si pensò di trasportarlo in città. Chiamò Enrico Co-senz, vanto della nostra milizia, e gli disse: « Ti raccomando la mia batteria; è la salute di Venezia — Viva l’Italia! ». Gli artiglieri, che lo adagiavano nella barca, che doveva trasferirlo al letto dell’ospedale, ove la morte lo aspettava, piangevano a calde lagrime. Chiese i conforti della religione ; e dal confessore che esortavalo a perdonare ai suoi nemici, replicò : « Non ho da perdonare a' nessuno. Non ho nemici fuori degli Austriaci e del re di Napoli ». Guglielmo Pepe calabrese, generale supremo della difesa di Venezia, corse a confortar l’agonia del suo artigliere favorito ; e Rossaroll e-salò nelle braccia del vecchio suo capo l’anima incorrotta