158 LA PACE ADRIATICA socialistoidi e democratici, più o meno inconsciamente asserviti alla politica anglo-francese, il postulato di Fiume, dedotto per essi unicamente dal dogma wilsoniano dell’autodecisione, era servito ottimamente come diversivo per vulnerare il P atto di Londra e condurre l’Italia alla rinunzia della Dalmazia. Una volta che la Dalmazia era perduta, si poteva perfettamente lasciare andare alla malora anche Fiume. Naturalmente, non tutti erano così intossicati dal « virus » settario. Ricordo che sui primi di dicembre del 1920 alcuni bene intenzionati componenti dell’antico « Fascio parlamentare », i quali conservavano ancora, in pieno marasma nit-tiano e gioiittiano, un po’ dell’ardore interventista, vollero venire meco a Fiume, per studiarvi la possibilità di evitare (essi ingenuamente speravano) l’epilogo cruento del dramma. Quando si affacciarono alle banchine del porto e al ponte sulla Fiumara, non riuscivano a persuadersi che là dovesse tracciarsi una frontiera nè delimitarsi un’area di vita e di lavoro. Quella cara e brava gente, salvo poche meritorie eccezioni, non era mai stata a Fiume e non sapeva nulla di concreto su Fiume. Più della metà avevano votato per timidezza o per conformismo a favore del trattato, e ne confessavano pentimento e rimorso. Gabriele d’Annunzio, nella breve udienza accordata, li aveva conquistati: si sarebbe detto che, prima d’allora, parecchi di essi non avessero la minima idea del potere magico della sua parola e del suo fascino. Ma ormai era tardi, e la nostra gita fu, pratica-mente, inutile. Anche il Comandante lasciò intendere che non c’era più nulla da fare. Infatti si andò alla deriva fino al triste « Natale di sangue » e alla mutilazione della città. Il Duce salvò nazionalmente Fiume, il 27 gennaio 1924, con l’annessione: provvido atto, maturato da saggio ardi-