164 LA PACE ADRIATICA fare i soliti discorsi a una folla che non domandava altro che di potere acclamare l’Itaha e l’annessione. Tutta la piazza era gremita, compresi i balconi delle case intorno: soltanto un palazzo aveva le finestre chiuse, per un evidente atto di ostilità, e apparteneva al capo del locale partito jugoslavo; peraltro da un terrazzino sul cornicione si sporgeva ad applaudire con la folla una bella giovinetta, che pareva l’unica persona vivente in quella casa: ci dissero che era la figlia del proprietario. Visitare la Dalmazia a sud di Punta Planca, dove cominciava l’occupazione serba, era praticamente impossibile: volemmo tentare di scendere almeno a Spalato, ma neppur là fummo autorizzati a sbarcare. Dopo il recente assassinio del comandante Gulli e del motorista Rossi, c’era per tutti gli Italiani regnicoli, militari e borghesi, un divieto emanato dall’ammiraglio nord-americano Andrews, che colà impersonava i poteri degli Alleati e dell’Associato, incluso fra gli Alleati, si sarebbe dovuto credere, anche il Regno d’Italia. Era il modo di castigare il nostro Paese per un efferato defitto consumato, senza alcuna provocazione, contro due suoi valorosi figli. Eppure, ancorata nel porto, era ancora la Puglia, naturalmente con un nuovo comandante; e dal piroscafo che ci aveva portato a Spalato noi passammo direttamente a bordo dell’incrociatore, ove ci fu confermato che nè il comandante suddetto nè alcun uomo dell’equipaggio poteva scendere a terra, e che perfino la spesa viveri si effettuava a mezzo di fornitori che venivano sotto bordo con le barche; il Governo di Roma non trovava niente da ridire su un simile stato umiliante di quarantena, inflitto a una nostra nave da guerra, mentre l’uccisione di Gulli e Rossi restava, naturalmente, impunita. Ma c’era di mezzo, in quei