LA PACE ADRIATICA 155 nell’orbita dei propri interessi e dei propri sistemi di lotta; e che nelle piccole città litoranee, così ricche di bellezze e memorie romane e veneziane, e facilmente espugnate attorno al tavolo di Rapallo, aveva preteso cancellare barbaramente i tanti e tanti segni della nostra civiltà, offendendo, insieme col sentimento italiano, la verità espressa dalla storia, dai monumenti, dalla tradizione. Ante Pavelic ha mostrato di avere pienamente inteso e obiettivamente giudicato tutto questo. Uomo di severa indole, risoluto nell’agire, ma riflessivo ed equilibrato nel decidere, egli rappresenta un tipo umano ben diverso dal temperamento infantilmente impulsivo e irresponsabile dei facinorosi che dominavano fino a ieri l’ambiente governativo e militare di Belgrado. Si comprende che per fronteggiare la feroce sopraffazione serba, che mirava a distruggere l’individualità del popolo croato, egli dovette far uso di tutte le armi; e lo ha fieramente ricordato nel primo discorso da lui tenuto come « Poglavnik » a Zagabria il 21 maggio; ma Pavelic non è e non vuol essere un balcanico: tanto meno, nel senso che i Serbi hanno notevolmente contribuito a far prendere a questa parola. Il suo programma ha un alto contenuto politico ed etico, ed è l’organizzazione della sua patria nello Stato; è la creazione di questo nuovo Stato, secondo i principi ormai collaudati dall’esperienza storica delle Potenze totalitarie, con gli opportuni adattamenti al carattere e alla struttura sociale di un popolo contadino. I trattati sottoscritti a Roma il 18 maggio e l’invocata assunzione della corona per parte del Duca di Spoleto garantiscono la stabilità del restituito Regno di Croazia, collegandone indissolubilmente le sorti con quelle dell’Italia sabauda e fascista. Così la cooperazione fra i due Paesi