PECCATO DI MARCO. Gli eroi popolari diresti sien nati per dar ragione ad Aristotile Stagirita e al segretario Fiorentino: nè buoni nè tristi in intero, nè belli nè brutti in intero. Qui vedi il guerriero schietto peccare d’una di quelle che dicono restrizioni mentali, e giurare al berretto: non ti lascerò mai, intanto che un’infelice fanciulla araba piglia il giuramento per sè. Pazienza la lasciasse: e’ l’ammazza. E poi col danaro dell’Araba si mette a edificare prò bono animae, il mariuolo. In questo canto e’ confessa il fallo alla madre. Bello ch’e’ lo riconosca e confessi, e alla sua madre lo dica; e ogni tanto infra il narrare la nomini. La zuffa alla cisterna rammenta il rincontro della Genesi, rincontro da cui s’incominciano i destini del fecondo Israele. La carcere settenne di Marco è tutta odorata del basilico delle fanciulle. Con che poco, che molta poesia! E nel selvaggio come annestato il gentile! Violetta tra’ lecci. Quest’Araba che lo stucca, e i denti suoi bianchi che fanno travaglioso l’abbracciamento, sentono di quel comico del quale la canzone popolare si compiace abbigliare il figliuolo di re Vucàssino. Qui lo vediamo e men leale e meno invitto del solito: confessione che attesta lealtà e valore più veri nel popolo autore de’ canti. Ma quel capo reciso che a lui già montato in sella parla e dice : non mi volere, misera, abbandonare, e ripete la parola pia già ridettagli le tante volte nelle tenebre della carcere, è simbolo vivo del rimorso memore ed immortale nelle anime non istupidite dal fallo.