— Si salvino. Ascendiamo le scalette che conducono in coperta e ci gettiamo in mare. Ma, senza costume, al nuovo rigore dell’acqua gelida dove siamo già stati immersi per otto ore, con una gamba impegnata in un lembo del costume di cui non sono arrivato in tempo à sbarazzarmi, mi sento andar giù: sto per affogare e bevo acqua, quando l'ingegnere — che è ancora vestito — sopraggiunge, mi sostiene, mi aiuta e mi toglie dal capo l’elmetto di acciaio che, nel trambusto, avevo dimenticato di togliere. Arranchiamo così, risolutamente, al largo. Dopo i primi cento metri percorsi, già cominciamo a risalutare in cuor nostro la speranza e la gioia della vita, quand’ecco una barca a remi dirigersi in gran fretta verso di noi. Ci si grida in tono minaccioso che dobbiamo subito tornare a bordo della Virìbus. «Vogliono dunque farci morire sulla nave condannata ? » Con tede amara certezza risaliamo nuovamente la scaletta, presso la quale è la massa esplodente, con la carica già prossima a comunicarle l’accensione e lo scoppio. Sulla scaletta sta, densa, una folla minacciosa d’uomini seminudi. Alcuni grondano d’acqua. Alcuni ci gridano che noi li abbiamo ingannati. Altri vogliono sapere dove sono le bombe. Facendoci largo, dopo qualche minuto, riusciamo a raggiungere l’estremità poppiera. Guardo l’orologio di poppa della nave: segna le 6.27... Alle 6.30 deve avvenire l’esplosione. Odo un marinaio che grida in tedesco: — Portiamoli nella stiva, se è vero che la nave deve saltare ! Questa moltitudine iraconda ci preme, straccia a colpi di coltello gli abiti dell’ingegnere per perquisirlo, fruga quelli che poco prima io ho lasciato sul ponte, — 130 —