l’indomani — li introduce, quasi di sorpresa, nell’anticamera del Capo di Stato Maggiore. Appena scorgono Paolo di Revel, i fuorusciti non possono trattenere nè l’impeto nè le lacrime. Gli si gettano ai piedi in ginocchio, gli baciano le mani, gli chiedono con voce straziata urgente soccorso per la straziata città, dove accadono gravissimi disordini, donde le autorità austriache sono fuggite, dove la maggioranza italiana è sotto la minaccia di bande armate calate dalla campagna, dove incombe la fame, dove la sicurezza di tutti è compromessa dalle truppe imperiali senza più capi nè disciplina, dal fanatismo dei croati padroni delle comunicazioni, dei cannoni, delle navi, ma impotenti ed inetti a reggere la cosa pubblica. Invocano l’intervento della flotta italiana per tutelare l’ordine e proteggere i quarantamila connazionali alla mercè d’un’a-narchia sinistra e turbolenta. Nessuna parola può rendere la grandezza tragica di cotesta scena in cui la pietà umana parlava parole che “laceravano l’anima, tesa fra il terrore dell’abisso e il cielo della speranza. All’alba del 3 novembre, mentre il convoglio diretto a Trieste sfila fumigando dall’estuario del Lido verso il nord, nell’estuario di Malamocco la corazzata Emanuele Filiberto accende i fuochi, affretta il carico, rintrona d’argani, di fischi, di catene, di febbre. Vi si imbarcano il contrammiraglio Rainer e due delegati del Consiglio nazionale italiano di Fiume, l’ingegnere Attilio Prodam e il ragioniere Mario Petrich. Alle 7 VEmanuele Filiberto molla gli ormeggi, esce dalle dighe di Malamocco e raggiunge la squadriglia dei quattro cacciatorpediniere — YOrsini, lo Stocco, YAcerbi e il Sirtori — che l’attendono al largo. La navigazione è resa singolarmente lenta e difficile dalla nebbia densissima, dalle mine vaganti, dall'in- — 136 —