la mancanza del suo maggior punto d’appoggio, alle proprie spalle. La marcia delle colonne italiane che — sfondata la linea avversaria — puntano già su Elbas-san e su Durazzo attraverso la valle dello Scumbi, sarà notevolmente alleggerita. La riconquista di Durazzo e dell’Albania del nord non può essere, oramai, che una questione di giorni. E la nostra rapida marcia e la nostra manovra lungo la direttrice della sponda albanese esercitano — alla loro volta — una pressione sull’ala sinistra del fronte balcanico così energica da facilitare all’esercito d’Oriente il successo totale ed all’infelice popolo di Re Pietro la liberazione della culla della sua razza. La zampa lupescamente protesa dagli Absburgo sul territorio degli Scanderbeg e dei Duscian sta per ritirare l’artiglio. Sia lecito dunque oggi, dinanzi alla fortuna di questi avvenimenti che dimostrano come la giustizia non è scomparsa dal mondo, rievocare i giorni lontani nei quali uno stesso dolore affratellava italiani e serbi in Adriatico, in quel tempestoso inverno 1915-1916 che vide maturare una delle più atroci sventure collettive d’un popolo. La Serbia antica e nova sommerse, dopo una disperata resistenza, dalle armate austro-bulgaro-tedesche; l’esercito serbo, col suo vecchio monarca alla testa, col suo generalissimo infermo ma non domo, costretto a cercare scampo nelle gole di montagne impervie già sepolte sotto la neve, senza soccorsi, senza possibilità di riposo, senza speranza. Le malattie, la fame, il gelo, la stanchezza, la mancanza di mezzi di trasporto, avevano ridotto quelle belle brigate, sempre vittoriose in quattro anni di guerre continue, in una moltitudine miseranda. La catàbasi più straziante della storia, avvicinandosi al mare, perdeva tra i labirinti — 26 —