rocciosi ammantati di bianco brandelli di carne, di forza e di fede. Trascinava dietro di se grossi branchi di prigionieri austro-ungarici, unica testimonianza delle passate vittorie, gregge morente più triste e più miserevole dell’altro. Il nemico, alle spalle, incalzava. Il cuore italiano sanguinò, a quello spettacolo orrendo. Quando la moltitudine dei profughi serbi e dell’esercito in esilio potè giungere alla costa albanese, s’accasciò sulla spiaggia, stremata di forze, avvilita d’avversità, febbricitante di epidemie ; si trovò di faccia ad un mare iracondo, sopra un litorale paludoso e deserto, avvolta nel turbine gelato della bora incessante. La libertà serba e la stella di Marco Kraljevic sembrava stessero per tramontare per sempre. I giorni di Kossovo parvero rinnovarsi, più sinistri. Quand’ecco, sulle acque in tempesta, avvicinarsi alla spiaggia del martirio una flotta soccorritrice. Veniva avanti, sul mare insidiato da sommergibili, variegato di mine alla deriva, arruffato dalla bora, con tutta la rapidità delle sue macchine e del suo cuore solidale. Erano grossi piroscafi da trasporto, sottratti con abnegazione e con gioia all indispensabile e difficile rifornimento del nostro paese. Erano cargo-boats carichi di viveri, d'indumenti, di medicinali, di conforto. Erano cacciatorpediniere e siluranti minori martoriate dall uragano, ma che lo sfidavano con ostinazione pur di proteggere dall’insidie subacquee i grossi convogli. Erano navi-ospedale con il meglio della nostra organizzazione sanitaria. Era l’Armata d’Italia, quel'a militare e quella mercantile, pronta a tenere in rispetto le teste delle colonne di Mackensen — imbaldanzite dal successo, che cercavano ora d’attanagliare i resti dell’esercito serbo in isfacelo, — pronta ad accogliere come — 27 —