rore livido dell’alba, la grande massa della Viribus Unitis si sbanda. La parola « Unitis » è già in acqua; la scritta « Viribus » è ancora emersa. Intorno al colosso agonizzante, urla ed imprecazioni ; un agitarsi d’uomini e di cose. Sulla nostra barca che s’allontana, il marinaio italiano, che ho poco fa tirato per i capelli, grida con voce rauca, straziante, fra i singhiozzi : — Nave mia, nave mia bella ! Per i nostri cuori percossi dalla visione tremenda, indeboliti dal lungo soffrire, quel grido disperato d’amore ci sembra umanamente bello, nella sua angoscia. La Viribus intanto si sbanda sempre di più. Appena l’acqua arriva al livello della coperta, si capovolge di netto. Veggo i grossi cannoni delle torri trinate abbattersi come giocattoli ; ma è un attimo : perchè scompaiono subito. Immensa, lucente, verdognola, si presenta ora in aria la chiglia, che pianamente affonda. E sulla chiglia vedo un uomo che s’arrampica ; ne raggiunge la vetta; poi vi si ferma, diritto. Riconosco il comandante Vucovic. Si getta anch’egli nel gorgo; dopo, non lo vedo più. Alle 6.40, dov'era la nave ammiraglia, l’acqua, richiusasi sul suo cadavere, bolle in un risucchio spumoso. La lancia che ci ha raccolto ci sbarca sopra una banchina dalla quale — seminudi e stillanti acqua — veniamo condotti a bordo della nave ospedale Habs-burg. Ho le mani gelide, i piedi gelidi, il fegato che mi duole per la congestione prodotta dalla stasi sanguigna. Un marinaio, appena sceso a terra, mi dà un pugno nella regione epatica. Sto per svenire ; ma mi sostiene la presenza dell’ingegner Rossetti che, a testa alta, fiero come un Tornano antico, cammina avanti, fulminando - 132 —