dunque tutto, nel mondo ? Anche la fede più salda doveva vacillare ? Che cosa esisteva di duraturo, di solido, se pur i marmi e il gremito destinati all’eternità si sfacevano col tempo, per la salsèdine?... Il condottiero arcigno che dall’alto dell’alto piedistallo pareva riassumere la fierezza della Dominante, già l’avevano bandito, scavalcato di sella, legato come un prigione, condannato alla deportazione. Un destino amaro, più greve della nuvolaglia di piombo, incombeva sulla città spopolata, sulla basilica deserta. Quand’ecco un raggio di sole farsi strada nelle nubi, irrompere per le finestrelle della cupola d’oriente, andare a battere sull’arco d’oro dell’abside, accenderlo tutto, illuminar la scritta lapidaria: Italiani Lybiam Veneto« »¡cut leo, Marce, Doctrina, tumulo, requie fremituque tueri®. Quale scampanìo di campane irruppe nell’anima avvilita ? La disperazione era insulsa! L’Italia non poteva morire. Venezia non poteva cadere. Ogni scoramento, delitto. Ogni dubbio, bestemmia. Balzò dal cuore col sangue, rapido come quel dardo d’oro, un fiotto di fede. Il leone restava, ugna protesa, a difendere il suo dominio. L’ho immaginato vigile sulle barene degli estuarii, non nella posa serena di quando poggia la zampa sul libro aperto alla pagina di pace, ma nella torva attitudine di quando conficca gli artigli nelle borchie del libro chiuso, come lo rappresentavano i tagliapietre della Repubblica durante gli anni di guerra. Ho compreso quel giorno, in quella chiesa, l’importanza che nei momenti più difficili della loro esistenza i popoli dell’antichità mediterranea dovevano - 33 -