d’attenti, con uno scatto d’amore e di rispetto, da soldati italiani pallidi e consunti che non avevamo portati con noi. Erano venuti a piedi da Klagenfurt, da Lubiana, dai campi di concentramento della Croazia, fin dalla lontana Ungheria e sono giunti chissà per quali vie, chissà con quanti patimenti, in tempo per riceverci ed accoglierci con sguardi che dilaniavano le fibre del nostro cuore. Altri soldati, dissimili da loro, ma stanchi, laceri e pallidi come loro, s’aggiravano a frotte stasera in questa tumultuante città, curvi sotto il peso del sacco gonfio legato alle spalle, più curvi sotto un peso più greve che non si vedeva, ma si leggeva negli occhi smarriti : erano i nemici vinti, arrivati fin qua dal Friuli, dal Tagliamento, dall*Isonzo nella precipitosa ritirata; travolti fin qui dalla marea arretrante, senza più ordine nè direzione nè orientamento nè mèta. Sono ancora nemici, ma non hanno più anima; alcuni portavano il fucile a tracolla, ma trascinandolo come un peso inutile forse senza sapere neppure essi il perchè. I nostri prigionieri scampati di prigionia, i nostri avversarii sospinti dalla disfatta si mescolavano e s’incrociavano senza che la promiscuità più li stupisse. Gli uni e gli altri ci hanno visti arrivare con animo diverso, ma con aria di sbalordimento uguale : essi soli silenziosi in mezzo al generale frastuono. C’è qualche cosa d’assurdo, stasera, a Trieste... Cinque giorni fa, oltre le linee del Piave, udivo ancora i concentramenti di fuoco delle artiglierie austro-ungariche abbattersi con rabbia contro gli ammassamenti delle nostre truppe all’attacco; ancora gli aeroplani crociati di nero bombardavano le nostre batterie galleggianti... Ed ecco che stanotte le mie finestre aperte in faccia ai moli di San Carlo — dove fremono — 52 — I