non potevano averla se non le classi più ricche — una famiglia di poche persone difficilmente poteva riuscire a cavarsi la fame. Voi sedete nel restaurant di un grande albergo, come ì’Excelsior, da pochi giorni ribattezzato, dai proprietari tedeschi, Savoia. Sfarzosa luce elettrica. Tappezzerie pesanti, ma comode. Lusso di cattivo gusto, lusso boche, ma lusso. Molti tavoli adorni di bionde donne eleganti, scollate e profumate. Parlano sottovoce coi loro amici di nazionalità indecifrabile — abito borghese di buon taglio, monocolo, ghette, cravatta sapiente — forse perchè non amano che i vicini riconoscano il linguaggio adoperato. Ci sono i fiori, sulla tovaglia; ma la tovaglia non è di bucato: bisogna risparmiare il lino e il sapone. Ci sono le sottocoppe di Boemia, attorno al vostro piatto; ma la salvietta è di carta. Nonostante questa prima impressione spiacevole d’un’impalcatura esteriore rimasta sontuosa, ma di un’intima sostanza scaduta di qualità e di quantità, tuttavia v’illudete, leggendo la lista dattilografata, sorretta dal piedistallo argentato accanto ai vostri bicchieri, di fare un pasto almeno discreto. Le portate incominciano. Avete mai assistito ad un pranzo giapponese ? Avete mai veduto una cena di bambole allestita per giuoco, in piattini lillipuziani, su mense microscopi-che ? Solo in questo caso avrete un’idea delle proporzioni delle strane vivande che passano sotto il vostro palato. Qualche cucchiaiata d’acqua calda con tre legumi dentro, un pezzetto di gelatina di gusto e composizione indefinibili, quattro centimetri quadrati di carne tenace sperduti in una poltiglia di orzo, quattro prugne salvatiche bollite, niente pane, un caffè fatto - 96 -