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LA SCHIAVITÙ DEL MARSIGLI
farla tacere. Al sospetto che si potesse attribuire ai suoi tanti affanni altro movente che l’amor patrio, fu udito da molti protestare quasi sdegnoso:
   A che scopo insomma queste mie fatiche? A che penso
io	mai? A che miro? — A ciò solo: che non venga meno questa illustre città mia e a me carissima patria; ma che si regga, che anzi sorga e fiorisca di più e che, col culto degli studi tornando di nuovo in favore, riacquisti la bellezza dell'antico decoro. Quando i miei concittadini siano occupati in buone opere, quando splendano per virtù e fama, quando godano i vantaggi di un’ onoratissima esistenza, io mi ritrarrò volentieri e me n’ andrò di questa vita, perchè vedrò di aver riportato d'ogni fatica abbondantissimo frutto7.
   Ed era sincero. Il che non toglie che gli dovesse riuscir gradita quella lode, fattagli dall’ unico bolognese che per più ragioni, ma sopratutto per l’amore operoso verso il luogo nativo, possa a lui paragonarsi, anzi dirsi suo emulo8, da colui che allora era arcivescovo di Ancona e dieci anni dopo la morte del Marsigli salì il trono di S. Pietro col nome di Benedetto XIV. L’alto senno e la discrezione del lodatore, persona schiva per natura di qualunque finzione ed eccesso, danno un valore raro alla sentenza, e di una più rara autorità oggi essa si riveste ai nostri occhi che già la vedono sotto la insegna delle somme chiavi.
   Il primo dono di monsignor Prospero Lambertini alla cappella fu forse quello d’un grande calice scannellato d’argento di Roma, con la patena d’argento dorato, del peso di più di 30 once, in sua