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che, rimasti raccolti intorno all’ asta spezzata della bandiera divelta, sperduti, derisi, respinti, sin dall’ ultime rocche, pur là, dove la parola lapidea non peritura nei secoli è dovunque parola d’Italia, ricalcitranti e ribelli, resistettero, naufraghi, ma incrollabilmente fidenti, attendendo l’evento immancabile.
      E l’evento, atteso, preparato, voluto, si compie, sotto i nostri occhi, come un miracolo gioioso, che d’improvviso fiorisca in cima a un lungo, perseverante dolore, e lo incoroni, seppur con riflessi di malinconia profonda, in quest’ ora grande e grave del nostro destino.
     E nelle anime nostre, fatte fervide dall’ empito che dentro vi si aduna, il sogno delle generazioni che furono si converte in forza e ci rapisce, fra i cieli e le tombe, là dove la morte si allaccia misteriosamente alla vita, per correnti arcane di voleri sopiti, di sforzi e di speranze spente. E il ricordo dei morti, dei nostri morti, diviene una virtù vivente, e rifioriscono in noi, suscitate nel loro nome santo, tutte le bellezze umane, tutti gli umani valori, e sin le cose e le pietre riacquistano, di sotto alla patina antica, un volto nuovo. La vecchia anima insonne delle città nostre si ridesta come da un muto sopore, tutti
i	grandi archi romani dai monumenti vetusti scrutano, come occhi dischiusi, l’orizzonte lontano, tutti i tanti leoni, sospesi ed intenti, sogguardano il mare.
     E ne tremano, forse, pur le ossa dell’Apostolo, a Spalato, laggiù, nella tomba fiorita, nel camposanto a picco sul mare, tremano al fremito sordo delle antichissime pietre della sua città, che sprigionano divini presagi, nel silenzio intento delle mura non più cieche nè sorde, ove stanno in ascolto le porte e le volte, per accogliere i reduci figli, che ritornano dall’esilio ventenne, qualcuno già curvo, già canuto, già stanco, mentre n’ era partito nel fiore degli anni, ma tutti ansiosi e con una vivida luce negli occhi.
     È come un riflusso di vita e di sangue questo ritorno dei pellegrini nelle città dissepolte dal loro ventenne sopore. Essi vissero tant’ anni lontani, battendo le strade del mondo, in una chiusa esaltazione, che rese il loro esilio più crudo e più solo, come rosi da un’ intima nostalgia disperata, che li isolava in solitudine d’ anima, anche fra fratelli di comune razza e di sangue.
      Essi ritornano, ahimè, non tutti ancora, con l’anima chiara, veramente italiana, gonfia d’orgoglio per la Patria, che li ha accolti, colla loro terra, nel suo seno gloriosamente imperiale. Essi hanno finalmente una Patria, i perduti, i raminghi. Essa canta, per entro allo scenario di queste nostre romane città, nei loro cuori fedeli, i suoi nuovi fasti, i suoi dolori, i rimpianti, non più sommessa, non più fioca e lontana, ma in armi, vigorosa e presente, e nessuno potrà togliere ormai le loro anime accese al suo amplesso materno, che abbraccia, nell’ armi, dal monte al mare, tutta la terra nostra.
      Perchè un’antica fatalità la riporta, l’antica Madre, sulle strade già percorse dalle legioni di Roma, per imporvi ancora una volta la sua legge ed istaurarvi un ordine nuovo. Al difuori dei calcoli degli uomini e delle loro volontà periture, la Storia opera spesso, sfruttando la loro incomprensione e i loro errori medesimi ai suoi fini eterogenei e reconditi, che portano ad equilibri od a forme di convivenza più alta e più umana, in cui, per vie oscure, un’ idea di giustizia e di verità si attua faticosamente, ma irresistibilmente, nel transeunte del tempo, per realizzarvi un’armonia.	Ildebrando Tacconi