28 dinum, teneatur ipse liberticius ire ad molendina cum ipso frumento et eciam ad inquirenda ligna cum barca et ad pi-scandum occasione ipsarum nuptiarum et servire in nuptiis si vocatus fuerit. Que omnia cum fecerit, teneantur predicte persone dare ei comedere et bibere. Ad que omnia teneatur eciam ancilia liberticia secundum quod servi tenentur. Teneatur eciam facere omnia servicia in nupciis que pertinent ad mulieres. Si vero pre-dicti servus vel ancilia ad mandatum predictorum, servicia ipsa facere noluerint, possint supradicte persone verberare vel eciam percutere illuni vel illam, sine aliquo dampno vel pena, alcun danno. E se alcuno dei predetti dovesse sposarsi e perciò avesse da mandare il frumento al mulino, il liberto sia obbligato di andare al molino con il frumento, nonché a far legna con la barca od a pescare in occasione delle stesse nozze e servire se vi fosse stato chiamato. Al caso avesse fatto tutte queste cose, le predette persone siano obbligate a dargli da mangiare e da bere. A tutte queste prestazioni sia obbligata anche la schiava liberata, nello stesso modo dei liberti; sia essa pure obbligata a fare in occasione delle nozze tutto quanto è di spettanza delle donne. Se però l’ex schiavo o l’ex schiava non avessero ottemperato all’ ordine dei predetti di prestare tali servizi, possano essi frustare o anche percuotere quello, o quella, senza alcuna conseguenza o pena. All’ infuori dello Statuto di Ragusa, nessun altro conservò, nelle edizioni che ci sono pervenute, le norme che regolavano la posizióne degli schiavi manomessi, nei confronti degli ex padroni, nei primi tempi della vita politica delle città dalmate. Come però già nell’ antica Roma, gli ex padroni non avevano soltanto diritti verso i loro ex schiavi, bensì anche doveri, così di questi ultimi troviamo pure notizia, e non unicamente nello Statuto di Ragusa, ma anche in quello di Cattaro. Lo Statuto di Ragusa (L. VI, c. 45) conteneva : Servus vel ancilia liberticij, liberati videlicet a servitute dominorum, et filij ipsorum angariam facere non teneantur. Et si ipsi servi liberticij, se vel filios suos regere vel manutenere non possint et voluerint se vendere vel in pignus dare, vel sine precio se dare in servi-tutem, patronus vel patrona qui ipsos vel ipsum liberavit, et filii et filie eius, et primi nepotes ipsius, reducant illum vei illos in servitutem pro ilio precio quod de se poterit se habere, vel sine precio, si sine precio se voluerit vel voluerint dare. Et si jam se vendidit, patronus vel patrona, possit eum vel eos redimere pro ilio precio quo se vendidit. Lo schiavo o la schiava liberati dalla schiavitù ed i figli degli stessi, non saranno obbligati a fare opere pubbliche senza compenso. E se gli stessi schiavi liberati non potranno provvedere al mantenimento proprio e dei figli e vorranno vendersi o darsi in pegno, oppure ridiventare schiavi senza esigere un prezzo, il padrone o la padrona, che lo, o li, avrà liberati, nonché i suoi figli e figlie e primi nepoti, riprendano lui o essi quali schiavi per quel prezzo che loro avessero potuto conseguire, oppure gratuitamente, se egli od essi volessero darsi senza prezzo. E se egli si fosse già venduto, il padrone, o la padrona, possa riscattare lui ed i figli per lo stesso prezzo. Nello Statuto di Cattaro (c. 220) il relativo capitolo era identico, salvo che mancava il punto nel quale si stabiliva che gli schiavi liberati ed i loro