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migliori, quali il Gondola e il Palmotta, l’invenzione è italiana, e riflette le opere del Tasso, del Rimuccini, del Vida e di altri.
      Pochi d’ altronde sono stati i poeti che poetarono in lingua slava esclusivamente, e non certo i maggiori, i quali usarono sempre anche il latino e l’italiano. Fra questi pochi, Mauro Vetrani, usava infatti ambe le lingue nella corrispondenza poetica che intrattenne coi suoi amici ; mentre Nicolò Naie da Ragusa, modellava il suo teatro su quello italiano del Cinquecento, e così pure Marino de Darsa le sue commedie.
     Nè più originale può dirsi quel Pietro Zoranic da Nona (f 1509) che aveva latinizzato il suo nome in Pietro De Albis, e, nei suoi canti, imitava, con un garbo suo particolare, le « Selve » del Poliziano od il Sannazzaro.
     Anche Giovanni Francesco de Gondola, nato nel 1588 a Ragusa da antica famiglia di ceppo latino, nella sua produzione teatrale imitò con aderenza perfetta le opere deir Ariosto, del Guarino, del Tasso ; e sino il suo grande poema, 1’ « Osman », lasciato incompiuto, in cui qualche critico slavo moderno volle vedere una specie di carme nazionale, a un giudizio sereno risulta, fra pochi spunti originali, un prolisso rifacimento della « Gerusalemme » del Tasso; che il Gondola aveva pure tradotta, ma il manoscritto ne andò perduto fra gli incendi del terremoto del 1667.
      Altrettanto legato alla tradizione italiana fu 1’ altro maggior poeta slavo, Giusino Palmotta (1606-1657) di Ragusa, che si dedicò, al dire del suo amico Gradi, che ne pubblicò a Roma la « Cristiade » alla poesia slava, oltre che per 1’ amore della propaganda cristiana fra il popolo, eh’ è certamente uno dei dominanti motivi della sua origine, soprattutto, « perchè era più facile ai mediocri riuscirvi, che non tentando le muse latine». Ma il motivo dell’opera è ancora tratto dalla « Christias » di Girolamo Vida, e tutta la sua produzione poetica in genere è una parafrasi di Virgilio, del Tasso o dell’Ariosto ; per ammissione precisa del suo editore e amico Gradi, cui egli dedicò un suo poema, esaltando la romanità di Ragusa, di fronte alla circostante barbarie (vicina barbaries).
      E infine, lo stesso Andrea Kacic-Miocic, autore di dissertazioni filosofi-che in latino e poeta popolarissimo nel mondo slavo, dichiara, nella introduzione alla sua opera, di dovere usare la lingua slava per « rivolgersi agli ignoranti, che non sanno nè il latino, nè l’italiano ». La sua poesia è forse la sola che sia pervasa da un senso vivo della razza slava, perchè egli cercò, in 261 corir ponimenti, di ridestarne l’eco profonda, innestando fra i suoi canti originali, prolissi e disadorni, quelli eroici, che correvano sulle labbra del popolo della Bosnia e della Serbia. Tuttavia, nello stesso tempo, egli trovò modo di esaltare la potenza di Venezia, le gesta dei suoi dogi e dei suoi condottieri, facendo balenare agli occhi del popolo, che voleva educare, la gloria delle battaglie vittoriose sul Turco, secolare nemico della sua razza: Famagosta, Cipro, Lepanto!
     L’Italia ispiratrice è dunque sempre presente in questi conati di letteratura slava. E va rilevato che tale letteratura, che appena coll’ Illirismo del secolo XIX viene ad acquistare importanza, come un segno della rinascita