QUWiheiU&ne La « Rivista Dalmatica » che, per vent’anni, con sacrifizio, con tenacia e con volontà implacabile, materiata di fede e di speranza, ha tenuto alta la bandiera italiana su questa sponda, anche quando già tutto sembrava perduto e travolto nel calcolo di una più grande visione imperiale, oggi, può con orgoglio guardare al passato e ritemprarsi fieramente ai nuovi compiti dell’avvenire. La sua modesta opera di propaganda, che pur costò fatica e dolori, si assomma all’ opera assidua, silenziosa e tenace di quei Dalmati, che aggrappati alla loro zolla, sommersi nel livore balcanico, mantennero, come in una trincea disperata, le ultime posizioni, sino al giorno dell’ auspicato riscatto. La nostra voce chiara fu, per vent’ anni, 1’ espressione della loro attesa e del loro intrepido, silenzioso dolore, che merita un riconoscimento cui nessun elogio si adegua. Son vent’ anni che si chiusero i patti che resero la nostra terra a stranieri, e amainate, come mozze ali di un sogno, giacquero le bandiere, che sfarfallarono un attimo sui culmini dei nostri monti o dai campanili latini, e con loro, ahimè, caddero anche gli uomini, come quercie abbattute dal verno. Ma altri rimasero, per entro alla cinta delle città infellonite, vittoriosi del destino e della morte; e furono soli, per tant’anni, stranieri, senza diritti, nelle città eh’ erano loro, in ogni zolla, in ogni pietra, che portavano ovunque impressi, sotto la smorfia del nuovo estraneo volto, indistruttibili i grandi coni dello spirito di nostra gente. Dalla loro solitudine, essi assistettero al meraviglioso avverarsi della realtà palpitante della Patria ascendente aile mete imperiali. In mezzo ad essi, sempre viva e presente, essa sovrastò a ogni cosa, occupò la loro solitudine, infiammò l’ombra, e rinverdì, nelle torbide ora, la speranza. Estranei alla vita delle loro città, essi si confusero, colle forze dello spirito, al loro cuore profondo, e ne fecero delle cattedrali di anime, che risuonarono di un solo inno, di una sola preghiera, in cui riaffiorava la voce del loro passato, delle generazioni infinite, che le avevano lavorate, arricchite, difese, quali espressioni di volontà, di pensiero e di vita. Essi furono i confessori, i testimoni della loro vita profonda, mentre gli altri, che vi si annidavano, senza radici nel tempo, rimanevano sordi al linguaggio ampio dei secoli, e dall’ adunazione di tutte le ardua bellezze, in cui era fermata per sempre la venturosa vicenda di nostre gente, non traevano orgoglio, ma un senso di stupore e di penoso sgomento, che li spinse a sopraffarne, con sovrastrutture grottesche, la grazia, per cancellarne i simboli divinamente immortali. E nulla, non la delusione di Rapallo, non il tallone del Serbo, non pressure, o minaccie o lusinghe, valsero a piegare la fibra di quei pochi,