FATTI, PERSONE, IDEE 111 Francesco Giuseppe, ma contro Wilson, Clemenceau e Lloyd George. Il fascismo triestino, che germogliò rapido e vigoroso dal tronco irredentista, fu il primo che, una ventina di anni fa, prese a schiaffoni i marinai inglesi che osarono insolentire l’Italia, costringendoli — primo fugace esercizio di quei reimbarchi che diventarono poi la loro esercitazione preferita — a rintanarsi in fretta sulle loro navi. Già nel dicembre 1920, per un articolo «Sopravvivenze austriache a Malta», comparso su un giornale triestino ed esaltante i diritti dell’italianità maltese, il giornale e l’autore, prof. F. Pasini, furono richiamati all’ordine dalle nostre autorità, allora mancipie dell’ambasciata inglese. Non parliamo poi delle nostre sacre aspirazioni sulla Dalmazia che a Trieste furono tenute vive come in nessun’altra città d’Italia. La tragedia degli Italiani di Dalmazia a Trieste è stata seguita con profonda passione nei vent’anni di durissimo servaggio che i nostri fratelli dalmati dovettero sopportare per opera della banda balcanica serba che spadroneggiava spavaldamente in Dalmazia. Le sofferenze dei dalmati trovarono a Trieste immediata e affettuosa rispondenza. L’uccisione di Tommaso Gulli a Spalato provocò a Trieste l’incendio del Balkan. Gli esuli della terza zona trovarono a Trieste pronta ospitalità. Ma poi, l’irredentismo triestino, anche nel suo lungo periodo critico che va dal ’66 al 1915, fu mai veramente così limitato e così esclusivista da dimenticare le altre terre italiane soggette allo straniero? Non è stato forse il triestino Filippo Zamboni, ancora nel 1876, a rivendicare il diritto d’Italia su Tunisi per «non dover temere domani la rivalità di una nuova Cartagine»? Non sono, forse, sempre state seguite con profon- da passione, a Trieste, tutte le agitazioni e tutte le campagne a favore di quelle nostre «sacre aspirazioni nazionali» che da Tripoli andavano alla Tunisia, che da Malta andavano a Nizza ed alla Corsica? Non mira forse più lungi che a Trieste il grido del triestino Ruggero Timeus (caduto sul Pai Piccolo), lanciato al Re d’Italia nell’autunno del 1914, dalle colonne dell’«Idea Nazionale»? «E’ suonata l’ora. La fortuna ha concesso che la vittoria possa diventare più luminosa, la conquista più grande. Oggi al Re sta di decidere non più le sorti di Trieste, ma il destino d’Europa. A Lui non solo il compiere l’opera del riscatto iniziata da Carlo Alberto; ma iniziare una grandezza tutta nuova che nella storia porterà il Suo nome. Oggi non solo può ingrandire il Regno, ma fondare l’impero.» Eravamo nel 1914, Mario Appelius, e l’irredentismo triestino, per la voce di uno dei suoi interpreti più puri e più luminosi, parlava un linguaggio che superava le contingenze ed era presago del sicuro avvenire. Ma ormai il nuovo «irredentismo triestino», quello che tende all’unione integrale di tutte le terre d’Italia e alla conquista di un posto al sole degno della grandezza del nostro popolo, quello che aspira alla conquista di un primato europeo in perfetta unione col risorto mondo germanico, s’è conquistato una cifra di nobiltà col sacrifìcio di centinaia di caduti e di feriti nelle tre guerre combattute dall’Italia fascista in questi ultimi cinque anni: centinaia di caduti che rinnovarono le tradizioni del volontarismo giuliano del ’15, e che spesso si identificavano con gli irredentisti di prima del ’14. In Etiopia, in Spagna, in Albania, in Marmarica, sui mari e nei cieli, Trieste e le Giulie —1 con l’olocausto di Guido Presel e di Mario Granbassi, di Sergio Laghi, di Arrigo Protti