RICORDI DI TRIESTE AL TEMPO DELL’AUSTRIA 207 tamento ad essere disperatamente italiani, ma per ritrovarli adesso bisogna andare per i Camposanti che chiudono nella pace la loro intatta memoria. E quanti che incontravamo allora in quella guerriglia di tutti i giorni e di tutti i mezzi, quanti che passavano dalla burla atroce alla gesta pericolosa non ritroviamo più perchè hanno lastricata col loro .corpo la strada della vittoria? Gli altri, quelli che sono rimasti in città, sono stati presi dalle onde della vita ed hanno ben altro da fare che voltarsi indietro e ricordare. Ricordare è inutile quando la storia va avanti con un ritmo epico quale è stato quello degli ultimi venti anni; ricordare è inutile quando le pagine anche belle e splendenti che si sono vissute restano fatalmente sommerse in altre pagine di più ampia maestà e di più vasta grandezza. Pure se andando a Trieste mi vedo davanti il Senatore Pitacco che sembrerà sempre giovane anche quando avrà cent’anni, sento il mio cervello spalancarsi al ricordo di quando lo trovai la prima volta nel Municipio della città e mi disse che o veniva la guerra o Trieste italiana era perduta: dicembre del 1912. 0 se in un angolo del Caffè di piazza Unità scorgo il tavolo al quale si sedeva Riccardo Zampieri che dirigeva VIndipendente, mi coglie ancora la gioia di sapere che egli volle riportare otto dei miei articoli sull’irredentismo Adriatico ed il suo giornale fu otto volte sequestrato dalla polizia austriaca: Novembre del 1913. Che gusto allora venire a Trieste quasi di nascosto, parlare al popolo che accorreva strabocchevole per udire gli oratori regnicoli e sentire che l’anima triestina era sempre a bollore per la causa nazionale. Talvolta l’entusiasmo della gente era tale che mentre si credeva di farli piangere parlando al loro cuore, ci si accorgeva che i nostri occhi erano umidi e bisognava asciugarsi di nascosto le gote. E quali fremiti di poesia quando ci si radunava in pochi, quasi tutti giovani, in qualche chiusa stanza a constatare i progressi dell’irredentismo contro quell’ombra imperiale che pareva rendere lugubre anche in primavera la magnifica, veemente città. Certo, se vi incontro per le strade triestine o cari amici di quelli anni, mi pare di ringiovanire di colpo e di calarmi di dosso metà della vita. A ciascuno avrei da rammentare qualche cosa; ad uno la concitazione arrabbiata con la quale parlava del suo obbligatorio sovrano e la promessa di battersi come un matto se ci fosse stata la guerra, promessa largamente mantenuta; ad altro quella sera che passeggiando per il molo San Carlo vaticinava che gli Italiani sarebbero arrivati di là invece che dalla parte di terra, ed a te povero ed eroico amico Corsi, che raccolsi poi ferito in Val Tesino, che cosa non potrei ricordare dei discorsi e dei presagi di allora? che mi risponderebbe quell’imputato del processo di Graz se gli rammentassi il resoconto che ci faceva di quel processo per alto tradimento nel quale i giudici austriaci si lasciarono imbrogliare confondendo Giuseppe con Ricciotti Garibaldi? L’accusa era di complotto con Garibaldi e si intendeva dire Ricciotti. Allora l’imputato si alza e in buon tedesco, con aria stupefatta e solenne, esclama: ma signori, ci si accusa di avere complottato con Garibaldi mentre Giuseppe Garibaldi è morto da tanti anni. E il suo avvocato incalza: lassen Sie die Toten in Ruhe!; e i buoni giurati di Graz ridono ed assolvono. Sì, adesso quella Trieste mattacchiona ed eroica, canzonatrice e martire non c’è più, ma è difficile che confessiamo a noi stessi la ragione profondamente egoistica per la quale ingiustamente ed illogicamente la preferi-