VITTORIO BETTELONI NELLA CRITICA E NELLA POESIA Fra il rumore delle nostre armi vittoriose sono passati quasi sotto silenzio due centenari memorabili: la nascita di Vittorio Betteioni e quella di Giovanni Verga, avvenute ambedue nel 1840 (14 giugno - 31 agosto). Dico memorabili, specialmente per il fatto che ambidue questi nostri italianissimi scrittori, l’uno nella poesia, l’altro nella prosa, furono gli iniziatori d’un nuovo indirizzo letterario, il verismo, ma d’un verismo tutto nostro, paesano, quadrato, equilibrato, fatto di quella realtà, che è e sarà sempre il sostrato dell’arte trasfiguratrice. Quindi più realismo che verismo nel senso acquisito oggi da questa parola, da non confondersi, adunque, con l’altro degli scapigliati milanesi, il Praga, il Tarchetti e lo Zendrini, a cui il Bettelloni fu ravvicinato e il cui verismo era una tendenza letteraria, una «ars poetica» convenuta, mentre nel Nostro esso era istinto, natura e nul-l’altro. E veramente memorabile, strana e quasi identica fu la fortuna che ebbero questi due scrittori, cioè quella di raggiungere una fama improvvisa, clamorosa per altri motivi che non fossero i loro meriti intrinseci, che pure erano grandi: il Betteioni per la prefazione che il battagliero Carducci pose ai suoi «Nuovi versi», nel 1880, non tanto, forse, per esaltare il nuovo poeta, quanto per dare addosso ai romantici della maniera aleardiana; l’altro il Verga, per un motivo ancora più insignificante: la strepitosa accoglienza fatta alla «Cavalleria rusticana», opera di P. Mascagni. Poi decaddero entrambi e si spensero, quasi in disparte, avvolti nell’òblio, anche da parte di quelli che li avevano, un tempo, tanto esaltati. Il Verga non se ne dolse. Compiuta o quasi l’opera sua «I vinti» (1881-1889), dei quali «I Malavoglia» sono considerati oggi il più bel romanzo della seconda metà dell’Ottocento, il siciliano si ridusse nella sua nativa Catania, e ivi passò gli ultimi anni della sua vita, sereno e solo, incurante del mondo letterario, fatto «della costanza sua scudo ed usbergo». Non così il veronese, che s’agitò anche troppo e reagi, come risulta dalle sue «Impressioni critiche e ricordi autobiografici», contro gli avversari, a cui restituì pan per focaccia. Urtato dalle nuove correnti letterarie, che col D’Annunzio e il suo «Piacere» (1888) risalivano, tra il plauso della folla, l’alto mare d’un’arte nuova, lussureggiante, lui che, con la sua poesia, aveva sempre costeggiato la terra, sordo ad ogni richiamo di «canere maiora», scriveva così nella Prefazione ai suoi «Crisantemi» (1), polemizzando col (1) Per le citazioni seguo l’edizione di N. Zanichelli: VITTORIO BETTELONI, Poesie (Ì860-1910) - Bologna 1914, pag. 349.