BOLLETTINO BIBLIOGRAFICO 59 specchio parlante ognuno lo intende — e del resto «gli specchi sono per gli uomini, come, per le navi, le ancore: ci tengono aderenti alla realtà di noi stessi, ci tengono in noi», sicché la fanciulla che non ha più il suo specchio è costretta ad «uscir di sé», a «non saper più di sé»). Dramma, ma con pochi e brevi dialoghi, mentre predominano i soliloqui lirici dei quattro veri personaggi, ciascuno dei quali ha da dire il suo tormento che non può essere superato. Perchè non c’è superamento per loro, infelici brancolanti nel buio, che vanno «vanamente piangendo e cercàndo ciò che non è», e non sanno essi stessi di cne abbisognano, «sospesi fra il tutto e il nulla, fra l’essere c il non essere», fra la luce che vedono e le tenebre che immaginano. Soluzione non v’è che nella morte, soluzione negativa quindi, e per tutti e quattro. Più che qualche cosa di necessario, c’è qualche cosa di fatale che incombe su tutto il lavoro. Ciò è in contrasto con la visione artistica che il Posàr ci ha detto di avere nel volume precedente, ma non per questo rigetteremo il lavoro suo. La fatalità, la necessità, la volontà non sono che vari aspetti dell’arte come della vita; e se una visione volontaristica della vita è più vicina alla nostra mentalità attivistica e dinamica, non per questo rinnegheremo una visione differente quale di fatto il Posàr l’ha, per quanto non la voglia avere. Ma talora l’artista è il meno adatto a parlar di teorie d’arte. Cosi nell’introduzione il nostro autore si dice poco contento di chi ha definito la sua quale arte ellenistica «chè fra Ellenismo, Sentimentalismo e Decadenza (malgrado ogni tentata discriminazione) la differenza è ben poca!» Così si meraviglia che qualcuno abbia osservato una certa indeterminatezza nei suoi lavori, mentre egli stesso asserisce di concepire il dramma senza divisioni in atti e scene, senza scenari, senza didascalie; «il Dramma è tanto più Dramma quanto più deve farsi indovinare !» Da questa teoria a quella espressa nel famoso paradosso di Diderot — nel quale si nega il diritto all’attore di dare un’interpretazione sua, perchè egli altro non deve essere che l’espressore più fedele della visione artistica dell’autore — evidentemente della distanza c’è, giacché se il dramma lo si «indovina» evidentemente si interpreta personalmente. Ora la visione artistica è visione artistica ed io non voglio discuterla; ma perchè il Posàr fa delle «espressioni di alta meraviglia» se qualcuno deplora la sua indeterminatezza? \ada per la sua strada che è una buona strada, e lasci a parte le questioni teoriche eli«' tanto, per la sua opera letteraria, hanno ben poca importanza. Giuliano Gaeta PIETRO II PETROVIC NJEGOS - Il serto della montagna - Versione di Umberto Urbani - Milano, Garzanti ed. 1939-XVII, pp. 172. Il serto della montagna di Pietro li Petrovic Niegos è considerato il capolavoro della letteratura jugoslava: ce lo dice nella prefazione di questo volume Umberto Urbani, uomo di rara competenza in materia, il quale ha speso i suoi migliori anni in un’attività che ha dell’apostolato, cioè quella di far conoscere in Italia la letteratura jugoslava e di riavvicinare due popoli che contingenze politiche ed interessi di regnanti e di governanti hanno a lungo diviso. Pietro II salì nell’ottobre 1830 al trono del Montenegro, il trono del vladika Danilo, fondatore della dinastia, il quale, verso la fine del seicento, essendo alleato di Venezia, aveva guidato i montenegrini nella lotta contro i turchi. Pietro 11 iniziò il suo regno con due spedizioni contro i turchi di Podgoriza, e nella lotta antiturca dovette «appoggiarsi alla Russia, e, da quando non c’era più Venezia, all’Austria». In antitesi all’Austria, dominatrice degli slavi meridionali, si sentì e si disse fratello di Giuseppe Jelacic, bano di Croazia durante l’insurrezione da questo capitanata nel 1848, e tendente, secondo l’Ur-bani, «a ripristinare l’indipendenza della Croazia, non a salvare il trono pericolante degli Absburgo». L’ipotesi dell’Urbani è degna di nota, per quanto si sappia che il Jelacic fu eletto bano sì perchè il suo attaccamento a’ia Croazia era ben conosciuto dai suoi connazionali, ma anche perchè la sua fedeltà all’imperatore era ben conosciuta a Vienna. Però sorvoliamo questi particolari di contorno per ritornare a Pietro II. Non è da credersi che il suo spirito si avvicini allo spirito italico (e lo vedremo in seguito), e ciò nonostante il suo lungo soggiorno a Napoli e le sue visite a Trieste, a Roma ed a Venezia, dove pur fu aiutato in ricerche d’archivio da Niccolò Tommaseo e dal marchese Solari. Quanto all’attività letteraria di Pietro II, ricordiamo che versi suoi furono pubblicati anche, nel 1847-48, dall’Osseruaiore Triestino, in versione italiana. Quanto al Serto della montagna, le numerose traduzioni ne attestano l’importanza. Ci fu anche