L’OPERA CRITICA DI SCIPIO SLATAPER 85 Ma in questo amore di Slataper per Ibsen c’è tuttavia una nube: la pagina su Shakespeare. Non che uno dovesse necessariamente escludere l’altro, ma quel grido: «Leggendo e rileggendo, tornando a rileggere Ibsen a un tratto vi prende una smania indicibile: aria! sangue! Riprendete Shakespeare». (1) Quel grido verso il poeta sano e morale per eccellenza, ma anche chiaro e luminoso risuona a noi come se Slataper a un certo punto si fosse sentito soffocare da quell’universo chiuso della Norvegia, dove i principi familiari trascinano la vita senza un senso della durata, con la fedeltà alle tradizioni, e non si apre neanche sotto Io sforzo di esigenze spirituali nuove. Come se il tragico divorzio della mentalità nuova e l’impossibilità di accordare il pensiero libero alla vita imprigionata della borghesia gli stancasse i nervi nello sforzo di una tensione insopportabile. E come se lo stato di crisi simile a quello dello staccarsi della larva che evade dalla crisalide di certe creature ibseniane che vogliono spingersi lontano per lo sviluppo dell’esperienza e per la loro piena evoluzione morale, lo facesse soffrire fino all’esasperazione. Egli che fa la sua opera di critico con coscienza di poeta e, come dice Delcroix: «Non critica, comprende, interpreta, incarna tutti i drammi e impersona tutte le creature e resuscita l’autore e si commuove, si esalta, accusa, difende, condanna» (2), e con tanta passione che persino lì Croce nota la sua penetrazione e la sua sensibilità nei chiaroscuri artistici del contenuto (3), ha però bisogno di pace, di sole, di amore. E senza togliere il suo amore al grande Ibsen, se ne allontana un poco per cercare ciò che a Ibsen è mancato. Il dolore continuo e senza scampo stanca. Il dolore aveva già stancato Slataper quando scriveva: «Agli esseri umani una sola medicina: il dolore, prodotto dalla verità; una sola salute: l’uòmo. In tutto l’Ibsen non c’è altra massima che questa» (4). Così egli avrebbe desiderato ancora un’opera dell’Ibsen, l’ultima, (quella che il poeta sognò di scrivere in versi e che non scrisse mai) per ritrovare in quell’opera un solo ultimo accenno di amore. «Sarebbe stato come uno dei suoi ultimi eroi, la sua ascesa ultima. Il ritorno finale del pellegrino alla sua gioventù, il canto d’Amore d’uno che non ha gustato l’amore di questa terra. La sua vecchiaia senza speranza avrebbe trovato in sè il suo solenne e sereno entusiasmo. Forse avrebbe scritto il capolavoro. Era questo il suo momento: una superbia di freddo giudice, un casto egoismo d’artista che riconoscendo il peccato e l’errore della loro esclusiva vita vedono e sanno nella nuova umiltà ciò che mai prima i loro crudeli sforzi non hanno raggiunto» (5). L’opera non era venuta. Non era venuto nè per la gioia del poeta, nè per quella del suo critico. Ma l’arte del colosso del Nord non ne è rimasta menomata come non ne resterà menomata l’appassionata opera critica dello Slataper che fu quella che l’affermò scrittore e con la quale iniziò e chiuse la sua breve e intensa maturità. EMMA FABI (1) S. SLATAPER - Ibsen - pag. 218. (2) C. DELCROIX - Scipio Slataper. (3) CROCE - Crìtica (Ibsen) XV, p. 197 (4) S. SLATAPER - Ibsen . pag. 195. (5) S. SLATAPER . Ibsen . pag. 325.